Biennale di Venezia 2012. In chiusura un teatro per addetti ai lavori

Declan Donnellan e NickOrmerod in Laguna
Declan Donnellan e NickOrmerod in Laguna
Declan Donnellan e NickOrmerod in Laguna (photo: labiennale.org)
Campus teatrale o festival? Per la Biennale di Venezia, sezione teatro, quest’anno è stata buona la prima e, spalancate le porte alla formazione, le ha però chiuse al pubblico.
Se l’anno scorso, infatti, il binomio vincente formazione-festival, professionisti-pubblico, era stato portato su un palmo di mano sia dal direttore Àlex Rigola (di cui leggeremo prossimamente su queste pagine un’intervista), che dal presidente Paolo Baratta, quest’anno il binomio ha zoppicato, e a farne le spese è stato proprio il pubblico. 
Messo da parte l’evento scenico, la formazione è rimasto l’unico e vero motore di questa Biennale, che si conclude domani, lunedì 13 agosto. Una preziosa possibilità, questo è sicuro, per i tanti attori, danzatori, registi, drammaturghi e critici arrivati da ogni parte d’Europa, in cui però è sembrato venir meno una coesistenza fondamentale della pratica teatrale, che prevede sì il lavoro dell’attore ma anche la partecipazione del pubblico.

Il programma di quest’anno prevedeva infatti cinque laboratori tenuti da altrettanti Maestri internazionali: Declan Donnellan, Neil Labute, Gabriela Carrizo, Luca Ronconi e Claudio Tolcachir; oltre alle quattro residenze di quei gruppi che si sono formati o consolidati (come nel caso di Divano Occidentale Orientale) in seguito ai workshop tenuti da Romeo Castellucci, Jan Lauwers, Thomas Ostermeier e Rodrigo García nell’ottobre 2010, sul tema dei Sette Peccati.
In realtà, sia i laboratori che le residenze di quest’anno prevedevano una presentazione pubblica dei propri lavori, i cosiddetti “open doors”. Peccato che i luoghi destinati ad ospitare le presentazioni (teatro Junghans, Conservatorio B. Marcello, Fondazione Cini, Ex Cotonificio S. Marta) avessero una capienza massima di centocinquanta, forse duecento spettatori.
E visto che la Biennale non poteva di certo non assicurare a coloro che hanno partecipato ai laboratori (circa 150 iscritti) un posto a sedere, il conto per il restante pubblico si è presto fatto. Già il primo giorno di botteghino i biglietti risultavano esauriti. Ben poca cosa, pressoché nulla, è rimasto a favore del pubblico, che dopo essersi magari incuriosito duranti gli interessanti incontri con gli artisti non ha avuto modo di vedere al lavoro né i Maestri né, tanto meno, la nuova generazione d’attori e registi. Insomma, una versione della Biennale Teatro un po’ troppo “blindata”, e sotto più aspetti. 
Pur d’accordo nel ritenere bella, utile e necessaria la formazione, ci si chiede, in questo caso, se non sia venuta a mancare una componente altrettanto fondamentale. E se non si sia anche persi un po’ di vista la “città”, come luogo di dialogo e socialità, in cui il teatro dovrebbe trovare la sua ragione d’essere.
Un’alta formazione è stata certo quella prevista dalla Biennale, ma solo per addetti ai lavori. E allora siamo di nuovo punto e a capo: ritorniamo al circuito chiuso? L’opportunità di parlare ad un pubblico più vasto e trasversale, che sembrava essere l’obiettivo di tutti, dov’è finito? 
 
 

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  1. says: Omar Missini

    Specifichiamo. Tranne ristrette frange, il gotha del Teatro Italiano ( e possiamo ben dire che la Biennale, storicamente, ne fa parte) fa una vita che prescinde dal pubblico sotto ogni asse. Il teatro Italiano, lo sappiamo bene, non vive di incasso ( ripeto un discorso fatto da Altri: non ci sogneremmo mai di dire che Bollati Boringhieri o Laterza fanno editoria commerciale, ma se soggetti produttori di cultura come questi sopravvivono, è perchè..semplicemente..c’è un pubblico. La stessa cosa varrebbe per il teatro, che attende una vera rivoluzione privatistica, di sponsorizzazioni, e neo-mecenatistica) ma di istituzioni dissanguate che danno pochi soldi ad amministrazioni teatrali sprecone. In tutto questo il pubblico è tagliato fuori perchè il pubblico, in questo sistema non è di conto. Esteticamente si può dire che il dialogo con il pubblico meriterebbe una nuova seria riflessione critica.. Si può realmente dire, in forma di provocazione, che il pubblico non ha alcuna importanza, che il pubblico è solo un anello della catena dell’arte. E le forme dell’oggi sempre maggiormente lo dimostrano e lo dichiarano. Il teatro, a eccezione di certi lavori di alto livello nei termini di un teatro popolare di ricerca sulla tradizione (oggi Servillo prima della Villeggiatura – Villeggiatura, spettacolo tradizionalissimo, che ne ha determinato la definitiva “stabilizzazione” e probabile candidato alla direzione del Piccolo Teatro per il postRonconi – Vacis, Paolo Rossi, Serena Sinigaglia, Celestini- grazie anche ad un’abilissima strategia di marketing sinistroso ) possiede una natura elitaria, una naturale tendenza goethiana a essere ” conversazione tra persone ragionevoli” e quindi, conversazione quasi tra nessuno, di questi tempo. E’ naturale che in questo frangente storico la Biennale sia lo specchio fedele del Teatro Italiano che restituisce al pubblico il suo ruolo: nessuno. E’ un male? Non è detto. Ma a lungo non si potrà andare avanti così. Il pubblico è solo un anello, ma deve rimanere bello fermo. Altrimenti….

  2. says: Omar Missini

    semplicemente: non gliene frega niente a nessuno del pubblico. “Diciamocelo”, come d’Alema-Guzzanti.

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