Dal sacro al profano. Intervista a Valter Malosti

Lo stupro di Lucrezia|Valter Malosti in Clarel|Chiesa di San Bernardino a Ivrea
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Valter Malosti in Clarel
Valter Malosti in Clarel (photo: teatrodidioniso.it)

La pioggia sta cadendo forte mentre parliamo al telefono. “Stai compiendo il viaggio di Melville con Moby Dick”, gli faccio io. “Forse di Pinocchio”, mi risponde Valter Malosti, regista, attore, in macchina, in mezzo al temporale, verso I Teatri del Sacro di Lucca, dove è previsto il debutto della sua nuova creatura, “Clarel, poema e pellegrinaggio in Terra Santa”.

Qual è il tuo percorso di avvicinamento alle tematiche del sacro?
Lo spettacolo che più mi ha segnato in questi ultimi anni è proprio uno spettacolo legato al sacro, quello dedicato alla Chiesa di San Bernardino ad Ivrea. Qui sono gli affreschi dello Spanzotti, e partendo dal testo meraviglioso di Testori “G. Martino Spanzotti e gli affreschi di Ivrea ”, ho realizzato un’istallazione site specific, che ho chiamato “Vado a vedere come diventa notte nei boschi” [del 2002, ndr]. Un testo di Testori che raccontava degli affreschi, sconosciuti anche agli abitanti di Ivrea, dentro una chiesa del ‘400, all’interno dello stabilimento Olivetti, davanti alla mensa di Gardella. Un meteorite, capace di creare un cortocircuito con le persone del luogo. Per questo lavoro, io e Gianni Moretti avevamo coinvolto il coro Bajolese, che raccoglie da tantissimi anni la tradizione alta-popolare della zona del canavese; alle videoistallazioni Paolo Colafiore. Ho conosciuto così un Testori altro: in qualche modo già lo conoscevo, ma un conto è leggerselo, un altro è mettere alla prova quel materiale, metterlo in comune con qualcuno. Ho trovato questa connessione tra arte e sacro un mio primo incontro con lui, che ha poi portato a tanti altri.

Chiesa di San Bernardino a Ivrea
Malosti nella Chiesa di San Bernardino a Ivrea per Vado a vedere come diventa notte nei boschi (photo: associazionetestori.it)

Un sacro che dunque arriva a partire dalla letteratura…
Il tema del sacro si può vedere attraverso Testori, e in qualche modo attraverso lo stesso Pasolini, di cui feci “Orgia”, che detto così sembra non c’entrare nulla, ma in realtà c’entra molto… Due autori che, partendo da punti lontanissimi, hanno molti elementi in comune. Prima di tutto sono tutti e due allievi di Longhi [Roberto, storico dell’arte italiana, ndr], e questo interesse per le arti visive percorre il loro fare multiforme nell’arte, con l’esperienza nelle arti visive e nella musica che li porta a concentrare in una poesia densa quella del sacro. Non si tratta solo di fede, ma è la ricerca, come diceva Pasolini, di un’appartenenza, e di quella, che è detta volgarmente, “conservazione”. In realtà è qualcosa di diverso: è andare a cercare le proprie radici. Testori le chiamava espressive, Pasolini in un altro modo.

C’è ora quello con Melville.
Si deve sapere che Melville, in una crisi profondissima, viene spinto dalla famiglia a fare un lungo viaggio, lui che da giovane viaggiava moltissimo per mare, e da qui la sua esperienza letteraria gigantesca. All’interno di questo percorso, di scrittura e di ricerca, sia nei grandi romanzi che nei racconti, c’è questa ricerca del sacro, intermittente ma continua, che in “Moby Dick” – potrà sorprenderci ma è stato un insuccesso ai tempi – direi che è evidente. Melville parte, nel 1856, dopo aver incontrato Hawthorne, con cui lo lega una grande amicizia dai confini piuttosto incerti. Passa per l’Italia, di cui farà delle descrizioni straordinarie di Napoli, della cattedrale di Milano, di Padova. Poi, l’Egitto, la Grecia, e, dopo un lungo periodo, la Terra Santa. Riflette a lungo su questa esperienza, che lo porterà, circa 15 anni dopo, a realizzare questo poema sterminato, “Clarel”, di 18.000 versi, che finisce nel 1876. Vi ha condensato tutta la sua esperienza, tanto da poterlo considerare il suo testamento spirituale: si rifrange in tutti i personaggi che vi si trovano. Un poema che è sicuramente americano, riconosciamo nelle descrizioni dei luoghi santi la sua America, gli oceani, ma che ha anche un carattere visionario, tanto da sembrare, affermazione che si deve prendere con le pinze, quasi un poema di Ginsberg in certi punti.
Visionarietà è l’elemento che abbiamo scelto di seguire nella realizzazione di “Clarel”, che ha a che fare con quello che facevano Pasolini e Testori, il primo nelle descrizioni che si trovano nel racconto “La ricotta”, che richiamano il Pontorno, il secondo in modo ancora più clamoroso nella sua critica d’arte emotiva dei luoghi. Ecco, Melville ha questo tipo di approccio: descrive i luoghi santi, in un tour quasi da critico d’arte, ma in una modalità emotiva sconvolgente, mettendo insieme la descrizione architettonica dei luoghi, anche più cupi, più oscuri, con la fisiologia dell’essere umano.

Un’architettura dei luoghi che è dunque molto intima, interiore…
Sappiamo, grazie alle lettere che ci sono rimaste con Hawthorne, della ricerca della fede che turba tantissimo Melville, perché non riesce ad avere un sostegno certo ad essa, e questo viaggio deve essere un’opportunità per trovarlo. Saranno luoghi che, in questo multiforme rilievo sensoriale che lui dà alla Palestina, alla Terra Santa, a Gerusalemme, lo investono sia in senso fisico che sensoriale. E dove, invece di trovare un sostegno, scopre che ci sono tante fedi presenti. Si accorge di questo, come lui lo chiama, ‘intersimpaties’, una muta empatia tra i vari credi: una cosa di estrema modernità, dato che nell’Ottocento non era così comune.
Lo è invece ai nostri giorni, dove assistiamo a una sorta di grado zero, perché abbiamo tutto a disposizione, conosciamo tutto, e questo ci dà le vertigini. Cosa che invece coglie spesso e volentieri Melville, come ci fa capire attraverso il personaggio di Clarel, dietro cui c’è lui stesso. Sconvolto da tale consapevolezza, e cioè il riconoscere che tutto è presente, in un contesto sacro/religioso in cui si nasceva e  si seguiva la religione dei padri, la si portava fino in fondo senza porsi troppe domande, né perché, a Melville/Clarel le vertigini vengono anche in senso fisico, oltre che sensoriale.

Come hai cercato di rendere tutto questo nel tuo “Clarel”?
Abbiamo scelto più per la sua dimensione sensoriale, dando una sorta di lettura per frammenti. Ci è sembrato meglio così, era impossibile seguire il filo della struttura narrativa: per farlo tutto, ci vorrebbe un giorno, forse quando avremo i soldi [lo dice ridendo. Intanto sarà ripreso nell’ambito di Torino spiritualità a settembre, e poi ad Asti, nella Chiesa di Sant’Anastasio, ndr].
È un lavoro complesso, un concerto, dove ci sono due-tre direttive nella ricerca sonora. C’è quella delle musiche originali che Carlo Boccadoro ha composto, eseguite da Lucia D’Erricco alle chitarre, chitarra elettrica, acustica, e l’oud, strumento di origini palestinesi; sempre composti da Boccadoro, abbiamo utilizzato anche delle registrazioni fatte appositamente di cori sacri. C’è poi il trattamento del suono e dei vari live elettronics curato da G.u.p. Alcaro, che è in scena con noi. E poi ci sono alcuni frammenti di Field recordings arrivati all’ultimo istante, fatti a Gerusalemme e Israele, di Luc Messinezis. Queste componenti si mescolano alla voce, dialogando insieme, a volte si utilizzano come contrappunto, a volte sono protagoniste, scambiandosi vicendevolmente il campo. In un vero e proprio concerto, con una lettura musicale interpretativa imponente. Dove Clarel si capisce che è il protagonista, ma abbiamo preferito abbandonare la strada narrativa, abbiamo tolto qualsiasi aggancio a un’ipotetica storia: si vede soltanto quest’uomo che cerca il sacro, la fede. In versi di una grandissima bellezza.

Poesia, che ti è molto cara.
Ultimamente ho lavorato molto su di essa, trovo che sia uno dei temi (im)portanti su cui il teatro dovrebbe riflettere nei prossimi anni. Secondo me a volte si fa molto più teatro civile affrontando la poesia, facendola passare alle persone, che hanno sete profonda di bellezza. Certamente, c’è chi coraggiosamente e civilmente fa un teatro più sociale, legato a dei temi più scottanti: direi che le due cose dovrebbero almeno avere pari dignità, e pari responsabilità nella crescita culturale e nella formazione dei cittadini.

Lo stupro di Lucrezia
Lo stupro di Lucrezia (photo: G. Cairo)

Del resto, la bellezza è politica, capace di cambiamento… ma a partire da quali basi?
Non serve soltanto la denuncia, ma è necessaria anche la costruzione, che a noi italiani manca totalmente. Sono il direttore della scuola dell’attore del Teatro Stabile di Torino. E la cosa che proprio ci manca, e stiamo cercando di raggiungere, anche in una consapevolezza minima, è proprio questa coscienza delle proprie radici espressive. Trovate quelle, è anche più facile parlare di sé, altrimenti siamo svuotati completamente, siamo degli strumenti che parlano senza sapere quello che stanno facendo. Spesso siamo suonati e siamo parlati, invece di parlare. La narrazione spesso è solo storia, gli attori eseguono. Serve, può essere edificante, d’altra parte i bambini ci raccontano le storie, quindi… Sono importanti, ma anche lì c’è modo e modo, storia e storia, substrato su substrato. Con “Lo stupro di Lucrezia” abbiamo fatto questo: attraverso lo strumento della poesia, far passare un tema ferocemente attuale come quello dello stupro, facendolo arrivare in un modo ancora più forte, più drammatico. Come “Clarel”, anche “Lucrezia” è un’esperienza fisica. Il corpo fa da contatto, la voce e le orecchie sono parte del corpo, diceva Pasolini.

Come sei arrivato all’insegnamento? È stato un processo naturale?
Ma no, me l’hanno proposto, ho tenuto pochissimi laboratori in vent’anni. Mi pare di non avere una tendenza pedagogica troppo spiccata. E invece a un certo punto, collaborando col Teatro Stabile di Torino, me l’hanno chiesto, io che in scena ho sempre lavorato molto con gli attori, che hanno vinto tanti premi grazie a me… Essendolo anch’io, l’attore è al centro del mio lavoro. Credo che per questo abbiano pensato che potessi essere un buon direttore. Ho accettato con un po’ di resistenza, e adesso la cosa mi interessa molto. È molto faticosa, è difficilissimo essere il direttore di una scuola e girare coi tuoi spettacoli. Ma l’anno scorso ho fatto “Lucrezia”, dove ci sono due miei ex allievi appena usciti. E anche nell’“Amleto” c’erano sei ragazzi appena diplomati. Il lavoro che sto compiendo con la scuola è un’altra cosa rispetto a quello di cui molti si riempiono la bocca, con questa idea dei giovani, che poi lasciano andare… Devi dare speranza, dare voce ai loro progetti, coinvolgerli: semplicemente aiutarli, perché la situazione è drammatica.

Si può ancora educare in questo stato di calamità?
Col taglio dei fondi, le prime cose che saltano sono proprio quelle, la formazione e le scuole. Tutto questo però non riguarda solo il teatro; secondo me il fare cultura è tutto legato: si parte dai nidi, dalle ludoteche, dalla formazione, dalla scuola, e poi si arriva anche al teatro, attraverso tutta un’altra teoria, coi musei, la musica, insomma l’arte visiva. In mezzo a tutto questo, il teatro è una goccia. Dobbiamo essere capaci di tenere tutto insieme, tenerlo unito. Perché la stessa violenza contro le donne è causata dal grande tema dell’ignoranza, la gran parte delle volte queste cose terribili accadono per questo. A molti fa comodo, anche se ha dei costi 50 volte più alti, perché è molto più facilmente contenibile tenere la gente in questo stato. È molto più costoso quello, che investire in forme di cultura, come è dimostrato da tante esperienze. Pensa a Scampia…
C’è bisogno di fare un investimento che secondo me è molto meno costoso, anziché costruire nuove carceri, rendere la gente tossica, contare gli omicidi, gli stupri… In ricaduta sociale, il costo dell’ignoranza è dieci volte più alto rispetto a quello dell’idea di cultura, che è capace di far crescere gli esseri umani, così da non essere solo meri consumatori. C’è bisogno di ricostruire pian piano. Una nuova ricostruzione. Di tutto.

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