Danio Manfredini è un attore-autore dalla lunga storia. Ospite al teatro Rasi, a Ravenna viso-in-aria, con lo spettacolo-concerto “Incisioni”, è stata un’occasione per parlare con lui di teatro, musica e cinema…
Quest’anno le è stato assegnato il premio Ubu alla carriera, un riconoscimento molto ambito…
Sono felice, ma i premi non cambiano l’esistenza. È il 4° Ubu che vinco, ma questo è un momento molto difficile per il teatro e un premio non è niente, è solo un segno. Io continuo a fare teatro perché amo farlo, il teatro è una scoperta continua che ancora mi stupisce.
In che senso i premi non cambiano l’esistenza?
Non è per questo premio che riesco a girare di più con gli spettacoli o ad alzare i cachet. I volti della televisione e del cinema si fanno pagare molto di più anche se non hanno vinto nessun premio teatrale. Chi fa solo teatro è meno riconosciuto di chi fa “anche” teatro.
È stato definito “il maestro invisibile del teatro italiano”, si ritrova in questa descrizione?
Sì, non mi dispiace. Amo rimanere nell’ombra. Non mi piace lo show-business e la smania di finire con la foto in prima pagina o di essere riconosciuti per strada. Mi piace fare questo lavoro, essere riuscito a insegnare e continuare a studiare per ogni creazione. Anche ieri, per esempio, abbiamo fatto tarda notte per provare il concerto di Ravenna. È la creazione e il rapporto col pubblico che mi tiene qui. Poi c’è anche l’altra faccia, quella del mercato teatrale, degli incontri obbligati per costruire un percorso. Una cosa che bisogna fare, certo, ma la vita è nella creazione.
Nei suoi spettacoli da sempre hanno una grande importanza la pittura e la musica.
Nel teatro orientale la visione e la musica sono legate indissolubilmente al teatro. Se si vede il teatro Kabuki o il teatro No la visione scenica è tridimensionale, sono immagini pittoriche legate all’uso di maschere e costumi.
Noi, in Occidente, ridiamo questo equilibrio armonico di colori con l’uso della spazialità e delle scenografia. Anche l’aspetto musicale è molto presente in Oriente: i musicisti sono quasi sempre in scena assieme agli attori. Per me la musica è una spinta invisibile che sorregge il visibile.
Come avete scelto le canzoni da inserire nello spettacolo?
La suggestione che ha dato vita a “Incisioni” è nata da Massimo Neri e Cristina Pavarotti, che mi hanno proposto di cantare. Inizialmente gli ho detto di no, poi ho cambiato idea. Da ragazzo avevo suonato e cantato per strada, ma poi avevo cambiato direzione. Mi hanno fatto ascoltare tantissimi pezzi e poi abbiamo scelto le canzoni che seguissero una linea, quella di una storia d’amore destinata a finire con un addio. Con Neri e Pavarotti abbiamo scelto le canzoni per “Incisioni” affinchè consentissero una partitura della musica legata alla scena, senza sacrificare alcune suggestioni visive.
Dopo una lunga carriera come la sua ha dei rimpianti? Si è pentito, per esempio, di aver rifiutato delle importanti offerte cinematografiche?
No, mi va bene così. Nessun pentimento. Ho deciso di tenere duro senza cedere alle possibilità che mi proponevano, che consideravo lontane da me. Ho rifiutato di fare cinema perché erano progetti che non mi convincevano. Se fossero stati film pensati come opere d’arte avrei accettato, ma oggi il cinema italiano raramente è pensato come un’opera d’arte.