Tornano alla mente le parole di Cechov de “Il Gabbiano” guardando la scenografia del “Don Giovanni, a cenar teco” per la regia di Antonio Latella.
Seduti in platea si vede il teatro. Via le quinte, via il fondale, via i cieli, tutto è a vista, nudo: americane, fari, muri scrostati, attacchi della corrente, colonne, corde, nodi, s’intravede pure un tecnico che, discreto, in ballatoio, muove un tiro per far alzare e scendere uno dei pochi elementi della scenografia.
Non c’è la ricerca di un effetto, né poesia né crudezza, in questa scelta; è qualcosa di molto semplice, che non rimanda ad altro: è quello che è, un luogo spogliato, un teatro. A cui, in apertura di spettacolo, fanno da contraltare due attori abbigliati con foggia secentesca, abiti di pizzo, merletto e calzettoni, immobili l’uno di fronte all’altra. Il contrasto fra nudità e manierismo è solo apparente: anche i costumi, destinati ad attraversare epoche e stili durante lo spettacolo, sono teatro.
Si potrebbe obiettare che non è poi così stupefacente trovare teatro andando a vedere uno spettacolo, per giunta nel luogo deputato. Eppure, in qualche misura lo è.
Cercare, sperimentare, togliere, tagliare, stupire, inquietare, ammorbare, stagnare, soffrire, ancora cercare, dilatare, rimpicciolire, eliminare: di questo, soprattutto, è stato fatto il teatro a cui chi scrive ha assistito da diligente spettatrice. Nel tempo, però, i linguaggi si sono cristallizzati, creando arcipelaghi variegati attorno a due grandi poli: ricerca/tradizione. E intanto i discorsi sul teatro si sono moltiplicati, come attorno al letto d’un moribondo: quali le direzioni da prendere? Può esistere un teatro oggi? Con quale senso? In quali condizioni?
Insomma, s’è creato un immenso spazio di parole e concetti messi in scena che tante volte ha perso quella strana vita sospesa e stupefacente che s’incontra in uno spettacolo riuscito.
È indiscutibilmente un punto di vista personale, oltretutto su qualcosa di difficile definizione.
Non esiste di fatto la definizione di cosa sia teatro; ci sono sfumature o addirittura visioni radicalmente diverse, forse una per ciascuno di quelli che a teatro lavorano, e non sono pochi. Però qualcosa di essenziale c’è: un verificarsi di alcune condizioni che quando accade è teatro, indiscutibilmente, senza troppo ragionare.
Succede con lo spettacolo di Latella, forse lento a tratti, con momenti non sempre riusciti, come quello in cui, sfondata la quarta parete, tre attori interagiscono col pubblico. Uno spettacolo che però è vivo nell’insieme, bello da vedere.
Una visione che amalgama diversi stili e registri recitativi, capace di scivolare da Fassbinder a Sarah Kane attraverso Molière; con un regista che dirige attori perfettamente in parte, che a loro volta recitano bene; un testo innervato di diversi livelli di lettura senza essere snaturato o perduto in mille rivoli concettuali.
La storia è quella di Don Giovanni, dall’inizio alla fine. Il seduttore passa di avventura in avventura, da un matrimonio a una promessa, seguito dal servo Sganarello, personaggio in bilico che alla complicità col padrone alterna momenti di accusa verso la condotta del libertino, più o meno espliciti, più o meno seri.
Gli attori disegnano lo spazio attraverso l’azione, muovendosi tra i pochi ma efficaci elementi della scenografia. Ci sono dei momenti di forte impatto visivo: uno per tutti, la scena finale. Don Giovanni a cenar teco
In una penombra grigia, le schermaglie semiserie che hanno punteggiato vivacemente lo spettacolo lasciano il posto a una cupezza cha sa di sospensione: i personaggi sono diventati ombre di se stessi, rarefatti e invecchiati si avvicendano intorno al tavolo dell’ultima cena di Don Giovanni, assistendo imperturbabili alla sua morte.
Anche dal punto di vista visivo, non è mai solo una questione estetica che si esaurisce in effetto. Lo spettacolo ha un’identità definita, nasce da una precisa visione registica, da un gusto e un immaginario personali che pur affermandosi con decisione riescono a dare respiro sia al lavoro drammaturgico che a quello attorale.
drammaturgia: Antonio Latella e Linda Dalisi
con: Caterina Carpio, Daniele Fior, Giovanni Franzoni, Massimiliano Loizzi, Candida Nieri, Maurizio Rippa, Valentina Vacca
scene e costumi: Fabio Sonnino
disegno luci: Simone De Angelis
assistente scene e costumi: Graziella Pepe
sarta realizzatrice: Cinzia Virguti
realizzazione scene: Marco Di Napoli
assistenti volontari: Maria Conte e Davide Calvaresi
regista assistente e movimenti: Francesco Manetti
regia: Antonio Latella
produzione: Stabile/Mobile, Compagnia Antonio Latella
durata: 2h 46’
applausi del pubblico: 2’ 57”
Visto a Casalecchio (BO), Teatro Testoni, il 21 aprile 2012