Prima ancora che inizi la scena, la donna presentata da Eleonora Danco appare immediatamente nevrotica, ossessionata, agitata, in perenne movimento, in costante dialogo con se stessa e molto meno con il mondo che la circonda.
Una nevrosi congenita, insegnata e assorbita da quella della madre. A partire dal rapporto col cibo, imposto durante l’infanzia e deliberatamente rifiutato nell’età adulta. Una negazione come scopo metodico di costruzione della propria identità, che modifica il corpo, allontana i ricordi, contesta imposizioni odiate.
L’atto unico “Donna n° 4”, di e con Eleonora Danco, in prima nazionale al Teatro Vascello di Roma, appare un vorticoso susseguirsi di flash sulla vita di una donna in lotta tra la bambina che era, la donna che sarebbe dovuta diventare e quella che realmente è, costantemente giudicata dalla voce ridondante di un ricordo che suona come un monito: “Ringrazia sempre, mica sei la figlia di nessuno!”.
Nella vita adulta evitare aperitivi, cene, non comprare niente (neanche uova o farina) significa evitare un’assunzione di responsabilità e riuscire ad essere se stessa. Essere una donna contro la bambina che nascondeva i pezzi di carne masticata sotto la lingua.
La nevrosi rimbalza perfettamente nei ritmi di una vita metropolitana determinata dalle innumerevoli cadenze orarie collegate al cibo. Ogni mostra, aperitivo, incontro di lavoro, uscita con gli amici, a teatro, al cinema, ogni luogo comporta la possibilità di assunzione di cibo. E chi rifiuta il cibo, come la Donna n° 4 rappresentata della Danco, rifugge allora anche i rapporti umani.
E’ infatti una donna ossessionata dagli altri, colpevoli di sfruttarla, obbligata a seguire direttive, costretta a tuffarsi nei ricordi. Perché dietro ogni uomo o donna sembrano esserci la madre o il padre. Un’ossessione che la costringe a solitudine interiore e socialità apparente.
Nella stessa serata viene presentato anche “Nessuno ci guarda”, altro monologo – ispirato alla pittura di Jackson Pollock – che vinse nel 2000 il festival di Casalbuttano per l’originalità drammaturgica, e che oggi appare quasi l’antefatto di “Donna n° 4”.
Un antefatto che ingrandisce il punto di vista, analizzando il turbinio esistenziale di una donna intrappolata da duri ricordi d’infanzia, e dalla lotta tra desiderio e dovere.
La ricchezza narrativa del secondo monologo sta nell’alternanza e nella lotta intrinseca tra amore e rabbia, desiderio di fuga e necessità di contatto affettivo. Compaiono così frasi non dette, quelle pensate quando la protagonista era bambina, nei giorni in cui la propria opinione sembrava non importare a nessuno.
Come strappi tra le pieghe dei ricordi, la Danco indaga nell’interiorità di quella bambina ormai intrappolata nell’esistenza adulta. Le insicurezze di allora formano la fragile base identitaria della persona che è diventata. “Io non ho paura del buio, ho solo paura di sbagliare tutto” lamenta ad alta voce. Urla ciò che all’epoca in cui era bambina, con gli occhi alzati verso la madre, non osava neanche sussurrare. I pensieri d’infanzia riemersi nell’età adulta vengono rigurgitati contro se stessi.
In “Nessuno ci guarda” la scena è semplice, composta solo da un tavolo e una sedia, ma la messa in scena è arricchita dal ricercato disegno luci, in cui ogni cambio corrisponde a un personaggio diverso, ad un passaggio emotivo, alla rievocazione di un ricordo.
Rispetto a “Donna n° 4”, in “Nessuno ci guarda” drammaturgia, studio scenotecnico e ritmo risultano più definiti, accompagnati ad una maggiore precisione della struttura narrativa.
Dopo tredici anni Eleonora Danco torna ad indagare una tematica simile, ma dall’inevitabile confronto ne esce oggi meno incisiva, quasi consumata. La rabbia che si affacciava con ironia e irriverenza, le immagini forti, malinconiche e dolenti di “Nessuno ci guarda”, si sono attualizzate perdendo in parte la loro dirompenza e introducendo qualche luogo comune.
Lo stile, gli argomenti scelti e le ambientazioni da periferia urbana della Danco paiono aver viaggiato durante questi anni senza modificarsi, come immobilizzati nei testi, scontrandosi però con il mutamento dei tempi, delle necessità, delle contraddittorietà che ci circondano.
Lei tuttavia non ha perso l’energia e la determinazione, l’espressività vocale e fisica, ma è la carica comunicativa che sembra cedere.
La scelta di Eleonora Danco di spogliarsi ancora una volta delle consuetudini, in primis quelle attorali, viene mantenuta attraverso l’utilizzo di una voce non impostata, l’uso leggero del dialetto romano, il lavoro su azioni fisiche precise ma “sporcate” da un corpo abbandonato alla quotidianità.
Una scelta che porta fino in fondo dettando dalla scena gli interventi sulle luci e la definizione dei volumi delle musiche; e abbattendo la quarta parete per rivolgersi più volte agli spettatori. Una sorta di schiettezza che, dopo quindici anni dai primi successi, ha comunque ancora la capacità di scuotere gli animi del pubblico.
Donna n° 4
di e con Eleonora Danco
musiche scelte da Marco Tecce
costumi: MDM
disegno luci: Burbetta – Terzoni
tecnico luci: Tiziano Terzoni; Scena-Vuota
aiuto regia: Camilla De Bartolomeo
assistente alla regia: Ludovica Sistopaoli
organizzazione: Elisa Pavolini – Alessandra Limentani
uff.stampa e promozione: Artinconnessione _ Chiara Crupi
regia: Eleonora Danco
Nessuno ci guarda
di e con: Eleonora Danco
durata complessiva: 1h circa
applausi del pubblico: 2′
Visti a Roma, Teatro Vascello, il 19 aprile 2013
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