Il silenzio e la confusione. Il dentro e il fuori. I Carabinieri e la Digos in mezzo.
Perchè pare che per raccontare “Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro” (che Klp recensì due anni fa) dovremmo (ri)partire dalle ‘care’ categorie di giusto e sbagliato.
Invece ci ha colpito di più il silenzio in sala e la confusione fuori. Il silenzio dei bambini che assistevano attenti a uno spettacolo, diretto da Giuliano Scarpinato, bello, divertente, dolce e poetico, mai banale né retorico, interpretato meravigliosamente da Michele Degirolamo. E la confusione fuori, quella della Pistoia che si mobilita per protestare e impedire lo svolgersi dello spettacolo presentato dall’Associazione Teatrale Pistoiese.
C’è in corso un presidio di associazioni, esponenti politici e passanti. Hanno anche le insegne. No, in realtà “Presidio” è solo l’insegna del negozio davanti il Piccolo Teatro! I manifestanti sono un manipolo di facinorosi con la mattinata libera e l’urgente bisogno di difendere i nostri figli dal nemico. Un nemico che, di ventennio in ventennio, cambia di moda e attualmente è stato identificato con “l’ideologia gender”.
Lo spettacolo racconta la storia di Alex, che si rende conto di voler bene a Elliot, e questa cosa diventa più importante dello scegliere che scarpe infilarsi, che vestito indossare, o in che categoria infilarsi: maschio o femmina. E ci racconta che nella lingua samoana esiste un termine che definisce chi non si identifica in un sesso o in un altro: Fa’afafine, appunto.
Ma fuori, al di là delle forze dell’ordine, si urla al megafono durante lo spettacolo, provocando lo stesso fastidio di quando i bambini non sanno capire quando non è il momento.
Urlano frasi come “Pistoia Capitale della Cultura 2017, questa non è cultura!”. Ma cosa è cultura, se non imparare qualcosa che non si conosce dalla vita, ascoltando una delle sue tante storie da raccontare? Storie che potrebbero anche essere quelle di uno dei figli di quei manifestanti indignati.
E da cosa andrebbero protetti i nostri figli? Dai comunisti, dai meridionali, dagli immigrati, dai Testimoni di Geova, dagli omosessuali, dagli asociali, dagli zingari, o solo dagli ebrei?
Sono finiti i triangoli, e spesso finiscono anche gli specchi su cui arrampicarsi per trovare legittimazioni.
E’ sempre difficile svincolarsi dalle categorie dicotomiche della nostra società, tertium non datur, e forse potrebbero essere proprio le nuove generazioni la terza soluzione, i ragazzini che fanno domande intelligenti all’attore alla fine dello spettacolo, che timidamente avanzano interpretazioni, fanno considerazioni, proprio come gli adulti, quelli colti, ma senza sovrastrutture, senza paraocchi, perchè mentre fuori c’è tanto baccano per nulla, dentro si cerca di capire che cosa abbia provato Alex. E se al papà di Alex interessi di più il lavoro, la carriera o il figlio.
Una domanda che ha messo a tacere tutti noi grandi in sala, una domanda senza risposta, che dovrebbe trovarci tutti d’accordo fuori, gli adulti col megafono e quelli senza, perchè prima di protestare contro uno spettacolo questo andrebbe quantomeno visto, e poi perchè, alla fine, il problema non è una faccenda di categoria, di genere, di giusto o sbagliato, ma d’amore. E questo le forze dell’ordine l’avrebbero dovuto dire dall’inizio, con un sospiro pietoso.
Come Dante nel Paradiso: “Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l’universo a Dio fa simigliante”.