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Un enorme rullo industriale occupa il proscenio: il cilindro viene avviato e, man mano che la sua rotazione prende velocità, il teatro si riempie prima di un boato raggelante e poi di un fischio, quando la velocità massima viene raggiunta. Una parrucca, a quel punto, viene calata lentamente dall’alto, appesa a un filo: una discesa che attira l’occhio dello spettatore, ci spinge a millimetrare il percorso, a mettere a fuoco la tensione di quella verticale. Ci troviamo nel ganglio di paura e ammutolita crudeltà di quando presagiamo un male che sta per colpire gli altri, ma allo stesso tempo siamo maledettamente curiosi di scoprire l’effetto che fa. La parrucca è a meno di un metro dal rullo e sembra rallentare.
Chissà se a Romeo Castellucci, creatore senza maiuscola di questo “Go down, Moses” (a Roma fino al 18 gennaio), reduce da un precedente “The four seasons restaurant” pieno di riferimenti astronomici, è girato per la testa il concetto di «orizzonte degli eventi»: cioè quella distanza limite in prossimità dei buchi neri, oltre cui ogni particella viene risucchiata e la gravità è troppo forte perfino per la luce, che non riesce a scappare e a informarci su cosa succede al di là dell’oblio.
Qualche capello sfiora dall’alto il rullo, la parrucca in meno di un battito di ciglia si stira e deforma in verticale, per venire subito dopo ingoiata fatalmente dalla macchina e della sua trappola radiale, costretta alla stessa circonferenza.
Castellucci sa essere questo: sa trasformare un’immagine del tutto astratta e a suo modo matematica in una scena di violenza inaudita, che senza sangue ferisce tanto più in profondità. Affascinante, allora, era l’idea di parlare dell’Esodo e della vicenda mosaica attraverso il prisma di una vicenda contemporanea: una donna partorisce in un bagno pubblico (una scena che ribadisce la pulizia formale di cui è capace Castellucci anche quando il sangue e il realismo ci sono, eccome), abbandona il figlio in un cassonetto come Mosè nelle acque del Nilo, viene interrogata in commissariato affinché riveli dove ha nascosto il bambino, non cede, risponde in versetti biblici, viene sottoposta a una risonanza magnetica che diventa viaggio nel tempo e nello spazio.
Ci sono decine di acute e accattivanti trovate tecniche, impossibili da descrivere tutte: il velatino che fa da diaframma tra il palco e il pubblico, metafora efficace di una drammaturgia della distanza, ma anche supporto delle proiezioni e di concrete azioni fisiche; la registrazione dei suoni diagnostici della risonanza magnetica (che immagino non sia esattamente facile procurarsi) e che si riannoda concettualmente alla radiazione cosmica del Big Bang di “Four seasons restaurant”; il commento ironico e in contrappunto degli smile alla scena più cruenta dello spettacolo, come se dimenticare il dolore altrui a vantaggio del quieto vivere fosse in fondo facile come passare le dita da uno “shift+8” a uno “shift+9”; la presenza di una consistente sezione testuale, abbastanza rara nei lavori di Castellucci; una scena rupestre d’impatto visivo eccezionale grazie a un disegno luci caravaggesco (l’aggettivo è abusato, ma qui la forza con cui la luce incide la scena è davvero un po’ quella del San Matteo).
Eppure molte cose non tornano, e di “Go down, Moses” rimane l’impressione, per così dire, di una chiesa senza altare, dove sono i calcoli più che l’ispirazione a sorreggere gli archi e le volte.
Le note di regia sono uno strumento utile per capire l’essenza di uno spettacolo; non tanto per i contenuti però (perché su quelli è facile imbrogliare), ma proprio per come sono scritte, per lo stile. E le «vibrazioni psichiche che emergono come increspature nello spazio-tempo della vita quotidiana, oscuramente percepita come esilio» alcuni dubbi sinceramente li avevano sollevati già prima che lo spettacolo li confermasse.
L’architettura drammaturgica di questo “Go down, Moses” non resiste in ogni suo punto, infatti, al rischio dell’affettazione: un po’ come per questa frase che abbiamo citato, allo spettatore viene pericolosamente da pensare «ma davvero bisognava dirlo proprio in questo modo? Davvero era irrinunciabile?»; e sono domande, queste, che di fronte a un montaggio artistico ben compiuto (come solitamente sono quelli di Castellucci) non dovrebbero mai nascere. La stessa cosa non succedeva, infatti, con il precedente “The four season restaurant”, sebbene in quel caso Castellucci sviluppasse il suo messaggio con armi, se possibile, ancor più formali e astratte.
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Sarebbe difficile spiegare a un livello più profondo quello che manca a questo lavoro di Castellucci, al di là dell’impressione di una sintassi scenica più sfilacciata del solito e meno capace di giustificare la forza delle singole immagini (pur nel contesto, lo ripetiamo, della solita maestria d’architetto della visione: il piacere per gli occhi in “Go down, Moses” non viene mai meno).
Mi è venuto in aiuto un suggerimento da una fonte inaspettata, cioè da una meravigliosa e quanto mai attuale lettera di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci. Terzani cita un libro di un politologo tedesco, Krippendorff, secondo cui «la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e […] la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà».
Il teatro, dalle Eumenidi di Eschilo fino al razionalismo di Brecht, mettendo in scena le passioni e i punti di vista, sfruttando l’empatia del corpo per condurre lo spettatore all’altro da sé, ha sempre svolto un ruolo importante nell’elaborazione sociale che porta a spezzare la catena della vendetta e a farsi politica.
Spezzare: liberare. Se Castellucci ha creduto che il teatro dovesse parlare di Mosè, cioè di colui che libera dalla schiavitù, allora non riesco a capire come nel suo lavoro possa non esserci spazio alcuno per un orizzonte di liberazione, per quanto problematizzato, disossato, complicato. Potrei capirlo se quest’assenza corrispondesse, nel nostro tempo, a qualche forma di provocazione. Però, è chiaro a tutti, non è così. Resta, allora, l’intuizione efficace del tubo di una risonanza magnetica che sfocia direttamente in una grotta preistorica, riavvolgendo la storia e il suo nastro chiuso e inquietante.
Ma è un’immagine residuale, che calca con potenza visiva un timore collettivo e, diciamolo pure, uno stereotipo (non conta quanto lo stereotipo sia vicino al vero, quanto sia un rischio concreto il collasso della storia su sé stessa).
“Go down, Moses” sa troppo di doppio dell’inconscio, personale e collettivo: ha poco, invece, di quella capacità di esteriorizzare i conflitti personali e sociali che, anche in forme negative e astratte, può portare il teatro ad essere Mosé, o almeno una parte di Mosé, e a favorire la liberazione di cui parlava Krippendorff.
A cosa serve allora pitturare un SOS in nero sul velatino, come se la gabbia artistica potesse rivelarci una nostra «schiavitù incorporea, in esilio dall’essere» (sempre dalle note di regia)?
Questa schiavitù, per le generazioni dei giovani e meno giovani precari, è talmente nota e corporea da somigliare all’umidità che ti fa venire i reumatismi. Oggi lanciare l’allarme significa fare una proposta.
Go down, Moses
di Romeo Castellucci
regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci
testi: Claudia Castellucci e Romeo Castellucci
musica: Scott Gibbons
con: Rascia Darwish, Gloria Dorliguzzo, Luca Nava, Stefano Questorio, Sergio Scarlatella
assistente alla scenografia: Massimiliano Scuto
assistente alla creazione luci: Fabiana Piccioli
direzione della costruzione scenica: Massimiliano Peyrone
sculture di scena, automazioni, prosthesis: Giovanna Amoroso, Istvan Zimmermann
realizzazione dei costumi: Laura Dondoli
assistenza alla composizione sonora: Asa Horvitz
tecnica di palco: Claudio Bellagamba, Michele Loguercio, Filippo Mancini
tecnica del suono: Matteo Braglia
tecnica delle luci: Danilo Quattrociocchi
produzione: Benedetta Briglia, Cosetta Nicolini
foto: Guido Mencari
Brani musicali presenti nello spettacolo
“O Heavenly King” composto da Alexander Knaifel, eseguito da Oleg Malov e Tatiana Melentieva
album: “Alexander Knaifel: Shramy Marsha, Passacaglia, Postludia – Megadisc, 1996
“Wade In the Water” composto da John Wesley Work II e Frederick J. Work, eseguito da Empire Jubilee Quartet. Album: “Take Me To The Water” – Dust-to-Digital, 2009
produzione: Teatro di Roma e Socìetas Raffaello Sanzio
in co-produzione con: Théâtre de la Ville with Festival d’Automne à Paris; Théâtre de Vidy-Lausanne;
deSingel International Arts Campus /Antwerp; La Comédie de Reims Maillon, Théâtre de Strasbourg / Scène Européenne; La Filature, Scène nationale-Mulhouse, Festival Printemps des Comédiens; Athens Festival 2015, Le Volcan, Scène nationale du Havre; Adelaide Festival 2016 Australia; Peak Performances 2016, Montclair State-USA;
con la partecipazione del Festival TransAmérique-Montreal
Si ringrazia per la collaborazione il Comune di Senigallia- Assessorato alla Promozione dei Turismi, Manifestazioni / AMAT
Promozione e comunicazione: Gilda Biasini, Valentina Bertolino
Amministrazione: Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci
Consulenza amministrativa: Massimiliano Coli
durata: 1h 15’
applausi del pubblico: 2′ 0’’
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 10 gennaio 2013
Spettacolo privo di pathos, di anima, di suggestione. A parte la terribile brevità ( unico dato positivo) tutto sembra un inciampo, una ricerca spasmodica di qualcosa che mai appare e quando lo fa, è stato già fatto. La scena della grotta copiata pari pari al magnifico Kubrik di Odissea nello spazio! Sembra proprio che non ci sia una sola idea che possa reggere un impianto così disarmonico e profondamente povero di passioni!