Il mio si chiamava Jacek e dormiva in quello che per lui doveva essere l’equivalente di un hotel Hilton, cioè su un gradone laterale del complesso bianco con cui Meier ha impacchettato l’Ara Pacis.
Si avvicinò bofonchiando a me e alla mia ragazza, indicando la tasca strappata della sua giacca: qualcuno gliel’aveva tagliata mentre dormiva, portandosi via il portafoglio; al risveglio era corso dalla guardia notturna del monumento, che però aveva risposto con un sorriso distratto e distante di non aver visto nulla – me lo immaginavo benissimo, gli zigomi un po’ contratti e lo sguardo laterale, perché quei sorrisi sono sempre tutti uguali.
Quando un barbone ti si avvicina e comincia a parlare, per qualche istante non si riesce a capire quanto quel flusso coagulato di parole sia soltanto il frutto di una voce impastata e poco abituata a comunicare, o quanto sia invece la confessione di una solitudine sfociata in delirio.
Ma gli occhi azzurri di Jacek erano taglienti, svegli, e avevamo capito subito che – nonostante la logorrea di chiunque abbia bisogno di sentirsi parte del mondo che lo ha escluso, raccontando a chi per un momento lo ascolta più cose possibili della propria storia – le sue parole erano lucide: il discorso si spostò subito dal furto appena subìto alla considerazione di come, in Inghilterra, anche chi dorme per strada si senta più sicuro. Lui, arrivato oltre Manica dalla Polonia, dove si era laureato in Legge, aveva lavorato negli studi di un avvocato e, soltanto ogni tanto, come cameriere nei grandi alberghi.
Alzando le sopracciglia in cerca del cipiglio sornione del professore, ci diede una lezione di giurisprudenza britannica, spiegandoci la differenza tra ‘solicitor’ e ‘barrister’; poi, allargando le braccia come i santi nei quadri sacri, ci mimava le infinite scacchiere di tasti sulle pareti degli ascensori nei grandi alberghi di Londra, quando li percorreva su e giù per le consegne in camera.
A quel punto ci venne da chiedere come fosse finito in Italia, e lì arrivò la parte più sorprendente (anche se offuscata) della storia. Jacek ci raccontò di un’improvvisa caduta economica, delle prime notti passate sui marciapiedi londinesi; poi, di un viaggio della speranza verso Roma, con gli ultimi risparmi, sperando di ottenere una mano da antichi amici polacchi, a quel tempo impiegati nel Vaticano di Giovanni Paolo II.
Ci disse dell’ansia di vedere quel papa che sentiva suo, e della gioia quando riuscì a farsi ospitare da un ostello vaticano dedicato ai pellegrini dalla Polonia.
Ma poi, mentre cercava di farsi ricevere da qualche prelato per chiedere un lavoro, incappò in un tal padre Hejmo, che ci descrisse come una figura algida e potente, il cui nome pronunciava corrugandosi e piegandosi all’indietro col busto, prolungando all’infinito la «j»: «Hejjjjjjjjjmo» gli intimò di andarsene, senza dare giustificazioni. A quel punto, Jacek disse di essersi ricordato che quel nome, Hejmo, l’aveva già sentito nei racconti di suo padre, che era stato in Solidarnosc ed era stato denunciato dai collaboratori del regime.
Jacek decise di non dare troppa importanza a quell’episodio, anche perché ogni volta che provava a chiedere informazioni su quell’uomo, anche le persone più disponibili sembravano stranirsi.
Un giorno il personale dell’ostello gli chiese i documenti per fare delle verifiche, lui li consegnò e, da quel momento, non li vide mai più. Senza soldi e senza documenti, senza aver ottenuto l’appoggio in cui sperava, si ritrovò a fare la vita che l’aveva portato fino a noi quella notte. Erano le tre e lui avrebbe continuato a parlare per ore (voleva per forza insegnarci quant’è importante mettere la lingua fra i denti quando pronunci certe parole in inglese), a dirci dei suoi sogni mancati e a dimostrarci quanto non meritasse quella fine. Aveva raccontato la sua storia ad un giornalista della Stampa, ma non se ne era fatto nulla. Sfruttando una delle pause nel suo lungo discorso, dovemmo salutarlo e gli lasciammo qualche soldo. Ero naturalmente diffidente verso quella storia che sembrava per certi versi uscita da un romanzo posticcio di Dan Brown.
Eppure, tornato a casa, scoprii che «Hejjjjjjjmo» esisteva davvero, e che proprio qualche tempo prima era stato accusato di essere stato una spia dei servizi segreti sovietici.
Non ho mai scoperto quanto di vero ci fosse nei rancori di Jacek, perché non l’ho più trovato quando sono tornato a cercarlo all’Ara Pacis: ma mi fece impressione quanta sia la complessità delle storie umane che ci lasciamo accanto, camminando sui marciapiedi o vicino alle stazioni, infagottate in coperte putride o appoggiate sugli scatoloni dei supermercati dove facciamo la spesa.
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La recensione dei “Giorni del buio” comincia soltanto ora: non m’illudo che questo piccolo apologo possa dare la voce che merita a Jacek (chissà dove dorme); si tratta piuttosto di dare un’idea delle aspettative che avevo andando a vedere questo saggio finale dell’Accademia Silvio d’Amico, i cui diciannove giovani attori al terzo anno di studio sono stati affidati alla regia esperta di Gabriele Lavia.
Mi aspettavo, cioè, uno spettacolo che lacerasse, che suggerisse la quantità, il dramma e la bellezza delle storie umane che così facilmente ci sfiorano e così facilmente ignoriamo. E invece.
Invece, prima di tutto, Lavia non è riuscito a ottenere il principale risultato che si chiede, immagino, a un qualsiasi regista affermato nel momento in cui gli si affida l’allestimento del lavoro finale di un’accademia o scuola di teatro: cioè di superare appunto la dimensione del saggio finale, di coinvolgere gli attori in una drammaturgia ispirata e dotata di fini precisi; non di celebrarli con un’equilibrata ripartizione di tempi e spazi, non di finalizzare l’opera alla mera verifica pubblica delle capacità acquisite nel percorso formativo, come il canto o le pronunce dialettali. Mi viene da pensare, ad esempio, al «Sogno di una notte d’estate» di Carlo Cecchi, nato anch’esso come saggio di diploma della Silvio D’Amico nel 2009: in quel caso il risultato fu uno spettacolo d’identità precisa, forte, e infatti fu supportato dal Festival dei Due Mondi e dal Teatro Stabile delle Marche, avviandosi ad una vera e propria tournée.
Stavolta, invece, Lavia non ha trovato la forma adatta a quello che senz’altro poteva essere un buono spunto, cioè chiedere ad ogni attore dell’Accademia di raccogliere la testimonianza di un barbone.
L’impronta dello spettacolo è senz’altro la coralità: fin dall’inizio tutti gli attori sono in scena, trascinando o aggrappandosi ad un monumentale oggetto scenico (che sarà importante anche nel finale e che si deve alla bella invenzione di Paola Castrignanò), sorta di enorme menhir costruito con carrelli della spesa, o piuttosto Torre di Babele di una civiltà che, tra tumulti di clacson e fari spianati, distrugge simbolicamente sé stessa nel silenzio di chi rimane ai margini.
Il coro dei corpi si distribuisce in un’ordinata macchinosità (nel lavoro di Enzo Cosimi mi è sembrato di cogliere più di un riferimento a Kantor), in coreografie dal ritmo violento, monotono, a suggerire attraverso composizioni astratte la disumanizzazione degli individui-manichini. Da questa macchina di corpi rigidi emerge l’improvvisa vitalità della singola voce, del singolo attore, che dopo aver presentato il nome, l’età e la città del proprio barbone, ha un paio di minuti per assumerne l’essenza e condividerla col pubblico, prima di rientrare nell’indistinto.
Con questi presupposti, e nel contesto di una fin troppo ostentata forza coreografica, saper restituire l’individualità del singolo barbone diventa impresa ardua. Ciò che infatti non accade quasi mai.
Dal punto di vista recitativo gli allievi dell’Accademia non hanno assolutamente colpe: anzi, di attori bravi ce ne sono eccome, e la garanzia della Silvio D’Amico è indiscutibile. Basterà citare la keatoniana Pina di Valentina Carli, la Tiziana di Desiree Domenici o il Maurizio di Gianluca Pantosti.
Diverso è il discorso per i testi, elaborati dagli stessi allievi: presentati in questa stringatezza (comprensibile per l’esigenza di dare spazio a tutti nella struttura scelta da Lavia, ma tutt’altro che inevitabile), non sono sembrati avere né forza poetica quando cercavano il lirismo, né forza mimetica quando provavano ad essere narrativi. I barboni cui si voleva dar voce sono diventati le diciannove variazioni sul tema di un unico personaggio, e l’espediente di far indossare quasi sempre lo stesso cappotto a chi diventava voce solista ha finito paradossalmente per mettere ulteriormente in evidenza questo difetto.
Per almeno tre o quattro barboni si è sfruttata in modo piuttosto stereotipato l’errata dizione degli anglicismi (la Tiziana della Domenici ad esempio odia i «flescis») e non appena il testo ha provato ad essere più impegnato e asseverativo, è scivolato nella retorica: «Dobbiamo trovare qualcosa che ci impedisca di continuare a farci del male».
Insomma, l’assetto registico e coreografico, insieme ai tagli e alle scelte dei frammenti testuali da proporre, fanno sì che nei “Giorni del buio” prevalga una vaga malinconia e un torvo senso di estraneità rispetto ad una società ghettizzante. Manca, purtroppo, la capacità di approfondire lo sguardo gettato dall’esterno sulle vite dei barboni, di andare oltre la proposizione di un catalogo di solitudini.
Si preferisce strappare qualche risata, oppure metterci l’immancabile spruzzatina d’apocalisse, quando nel finale si evoca il definitivo schiacciamento della natura e dell’etica sotto il peso delle babeliche lamiere.
Ma così il teatro dimentica di essere civiltà in atto, dimentica i mezzi con cui potrebbe unire o costringere all’incontro le vite di chi sta dentro e di chi sta fuori (dalla società, da una casa, dalla follia), così come ogni giorno si uniscono e diventano una cosa sola, nel corpo dell’attore, lo spirito e la carne.
“I giorni del buio”
regia e drammaturgia: Gabriele Lavia
coreografia: Enzo Cosimi
con: Rosy Bonfiglio – Johanna, Valentina Carli – Pina, Barbara Chichiarelli – Italia,
Giulio Maria Corso – Karim, Flaminia Cuzzoli – Susy, Valerio D’Amore – Vincenzo,
Alessandra De Luca – Nina, Arianna Di Stefano – Ira, Desiree Domenici – Tiziana
Carmine Fabbricatore – Lello, Giulia Gallone – Maria, Samuel Kay – Caesar
Matteo Mauriello – Leonardo, Marco Mazzanti – Giovanni, Ottavia Orticello – Edda
Alessandra Pacifico Griffini – Dolores, Gianluca Pantosti – Maurizio, Eugenio Papalia – Benny
Matteo Ramundo – Paul, Veronica Polacco
assistente
costumi: Gianluca Sbicca
scene: Paola Castrignanò
assistente alla regia: Giacomo Bisordi
foto di scena: Tommaso Le Pera
durata: 50′
applausi del pubblico: 3′ 30”
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 19 giugno 2013
Cos’ hai contro zombie3?????
Grandiosa delusione per il saggio di accademia d’arte drammatica del III anno presentato in questi giorni a Roma: uno spettacolo dove i poveri allievi sono stati schiacciati in una marmellata di urla, musica sparata continua, effetti da zombie 3, a pallida imitazione di uno spettacolo Baush o Delbono. Impossibile distinguere un allievo dall’altro, e anche di cogliere i temi delle singole drammaturgie, disperati e agri racconti delle solitudini homeless raccolte dagli allievi stessi. Spiace per l’impegno dei ragazzi, sempre generosi, per le sempre intelligenti coreografie di Cosimi, per noi registi venuti ad osservare ragazzi e incapaci di riuscire a cogliere valori, preparazioni, differenze.. nella replica di domenica mancava persino uno straccio di programma dove poter leggere e quindi identificare i nomi dei giovani attori! Sic!