Dopo aver letto il tenore non esattamente lieve delle note di regia, uscendo dalla sala del Teatro Argot in cui Roberto Latini ha concluso, con «Museum», la sua trilogia «Noosfera», la prima cosa che ci è venuta in mente è stata: poteva andare peggio.
Avrebbe infatti potuto andar peggio se il trittico si fosse davvero concluso senza mai affacciarsi – come lasciano intendere le note di regia – dalla stanza di stallo e di non rappresentatività dove a lungo avevano abitato i primi due capitoli, «Lucignolo» e «Titanic».
Quello che non ci era piaciuto dei lavori precedenti – lo diciamo subito per non farci affibiare il cipiglio dei tradizionalisti – non era certo la scelta in sé di usare il teatro come lente da cui le parole, i gesti e la loro semantica uscivano divergenti e inconciliabili, piuttosto che convergenti e messi a fuoco. Il problema non era l’ermetismo del linguaggio o il pellegrinaggio della sintassi scenica fra vicoli ciechi o circolari.
Il fastidio, invece, veniva dalla sensazione che Latini, chiuso in una difensiva stanza teatrale, avesse trovato la sua dimensione proprio in quello sbracciarsi inane, smarrendo poco a poco perfino la voglia di dare una controllatina alle finestre, per vedere se fuori piovesse ancora. Come se Latini sapesse che, in fondo, un fascio di luce e di attenzione sulla sua azione scenica gli erano garantiti dallo spessore tecnico della sua recitazione, dalla perfetta padronanza sul corpo e sulla voce.
Come altri hanno scritto di questo «Museum», siamo di fronte ad una drammaturgia fondata proprio sulla padronanza di sé, sul controllo dei segni corporei, dinamici e fotografici: sarebbe questa padronanza ad esporsi allo sguardo dello spettatore e a liberarne la mente nelle possibili interpretazioni.
Così facendo, però, Latini è caduto nella contraddizione di voler testimoniare un fallimento a posteriori appoggiandosi su una dignità teatrale a priori: un fallimento (politico, comunicativo, teatrale, etico) che, insomma, non sembrava essere davvero vissuto in scena, e trasmesso in una tragicità concreta e in atto; era invece dato per scontato, quasi come condizione dogmatica, e soltanto poi condiviso in una partitura teatrale meticolosa, glaciale e dolorosa al tempo stesso.
Sono riflessioni, certo, che non vanno fatte con leggerezza, perché Roberto Latini e la sua creatura Fortebraccio Teatro hanno dato tanto al teatro, lavorando e ancora lavorando alla direzione del Teatro San Martino di Bologna, fino a doversi arrendere un paio d’anni fa – con dignità e senza vittimismi – alla cronica latenza di fondi: e questo fallimento non può non aver influenzato anche l’atteggiamento creativo di Latini.
I cinquanta intensi minuti di «Museum», strutturati in una drammaturgia a quattro quadri, ci lasciano sensazioni contrastanti. Ma proprio questo contrasto emotivo segnala, in positivo, lo scarto tra il finale e i precedenti capitoli della trilogia.
«Il buratto» comincia con la balbuzie di Latini, stilema già fondamentale in «Titanic»; anche le due piccole sedie sul proscenio segnano la continuità: seduto, una maschera di brillantina argentata sulla pelle, Latini indossa una giacca con appese alle fibre decine e decine di chiavi, ad anticipare l’ultima parte della pièce, intitolata «Portiere delle porte dei pensieri».
Fra le due sedie un mucchio di terra, che fa pensare all’importanza dell’acqua in «Lucignolo» e a quella della farina in «Titanic»: come se Latini volesse compensare l’astrazione intellettuale del suo lavoro con quest’attenzione riservata agli elementi naturali, quasi un cantuccio da presocratici.
Le parole emergono a fatica, come dovendo percorrere chilometri di strada invisibile prima di avere la forza di esistere come suono.
Il discorso è scompaginato: emerge subito il tema dell’incantesimo spezzato, eco di Prospero e della sua Tempesta, che sarà ripreso più volte e soprattutto nel finale; meno prevedibile è però un’altra frase, anch’essa in seguito reduplicata dalla voce di Latini registrata e fuori campo: «Altrimenti fallisce il mio progetto, che era di dar piacere». Forse un metateatrale accenno di autocritica, chissà, o piuttosto una provocazione ad un’idea di teatro rassicurante e, in fondo, edonistica.
Latini sostiene con eccezionale capacità questo flusso interiore vocalizzato: una fonia appesa ai fili sottilissimi dell’umano e del fragile, sempre sospesa sull’orlo del dolore; quasi ci ricorda, nella sua autenticità artefatta (e la tecnica qui non è un difetto) le voci tremolanti dei matti che Ascanio Celestini ci ha fatto conoscere con «La pecora nera».
Latini si alza, e muovendosi scuote la schiera di chiavi appese ai fianchi e alla schiena: inquietante a livello visivo, perché lascia immaginare qualche labirintica e kafkiana serie di porte da attraversare, l’effetto è invece paradossalmente rassicurante a livello sonoro, perché lo sbattere delle chiavi produce un’armonia cristallina, quasi orientale.
«Neanche un cane» e «Funerale per un giocattolo rotto» sono un enigma incompiuto. Entrambi di una ferocia estetica che non può lasciare indifferenti, nella capacità di scolpire le immagini e avvolgere lo spettatore in un sogno isterico, ma anche sussurrato a qualche oscura intimità, verso l’«isola di una scena in cui sono già trascorsi tutti i giorni felici» (sempre dalle note di regia).
Davvero non si può non ammirare il lavoro di Max Mugnai alle luci e di Gianluca Misiti a musiche e suoni.
Ma è incompiuto, l’enigma, perché a momenti di grande densità e tensione si alternano movimenti in cui «Noosfera» ricade nei vizi di cui abbiamo provato a dire prima.
Da una parte, allora, c’è la resa di bellissimi mozziconi di monologo («Se potessi dire cos’è il mio amore per te, è come un bambino su un balcone con una bandierina in mano», dice Latini mentre sventola la sua bandierina simbolica, a urlare la lontananza da quell’ingenuità: una macchia di sangue tossito sul palmo della mano), il carillon drammaticamente ripetitivo di «Funerale per un giocattolo rotto», il periodico emergere di una onesta dubitatività riferita a sé stessi («Ho preferito sempre il rischio di rischiare. No, non è vero»).
Dall’altra, però, c’è un’insistenza quasi morbosa sul duplicare parole e sintagmi attraverso la voce fuori campo (che è quella stessa di Latini, registrata in un timbro quasi sfingeo, magnetico), secondo un modulo stilistico che somiglia più ad un automatismo che ad un’effettiva esigenza scenica, e c’è la ripetitività trita di alcune sequenze già viste nei precedenti capitoli, come quando Latini usa un panno bagnato frustando il pavimento per lunghi minuti, o come quando alza la verticale dello sguardo tirando in alto pugni di terra, un po’ cercando un tesoro e un po’ seppellendo sé stesso. Nessun dubbio che questa immobilità sia programmatica: ma siccome l’immobilità poggia su quella sorta di dignità-dogma di cui dicevamo prima, piuttosto di conquistare questa dignità teatrale gesto per gesto e volta per volta, il risultato sfiora a volte lo snervante.
Con il finale «Portiere delle porte dei pensieri» torniamo invece ad un’intensità capace di non attorcersi attorno ai propri stilemi, ma di aprire un varco, una porta, appunto.
Latini, con di nuovo addosso la giacca e la sua torma di chiavi titillanti, riprende il parlato colloquiale e quasi teneramente indeciso dell’inizio: stavolta però lo spinge a un’ascesa emotiva inedita nella trilogia. Rimanendo sempre coerentemente lontano dal lirismo e dal pathos, il testo si addensa attorno ad allitterazioni ed echi fonici, e per una volta la ripetitività non serve a rappresentare l’immobilità, ma la vitalità: «La porta che m’importa, la porta prima di dormire, la porta dei colori, dei valori, la porta delle porte». E anche se questa è la porta «dei pensieri già pensati molte volte», anche se è la porta dei pensieri a caso, dalla porta escono parole ferite che, curate, possono ancora fare luce: «Le parole quelle usate, quelle usurate, cadono davanti alla bocca. Io le prendo, io le tengo, io ci faccio lampadario», dice Latini con un incedere che ricorda Mariangela Gualtieri.
Da quest’essenzialità nasce una battuta che, racchiusa nella semplicità dell’indecisione e nella smagliata profondità che sa darle la pronuncia di Latini, diventa una delle più forti della trilogia: «Cado. No, sono in volo. No, cado».
Ci saluta, Latini, deponendo come Prospero i suoi incantesimi, chiedendo al pubblico di sciogliere i legami: chiede di essere salvato dalla preghiera, che va tanto a fondo da vincere la pietà. E, pronunciando l’ultimo monologo, sposta l’asta del microfono dal fondo laterale fino al centro del proscenio. Come ad augurare a qualcuno o a tutti un’uscita dalla marginalità.
«Noosfera» ci lascia, compiuto il suo viaggio, la stessa ambiguità dell’ultimo titolo del trittico. Come bisogna intendere, cioè, questo «Museum»? E cos’è stata, la trilogia di Fortebraccio Teatro? Un vasto archivio di vestigia del passato? O, etimologicamente, un’estrema – o forse postuma – celebrazione del consesso delle Muse?
NOOSFERA MUSEUM
di e con: Roberto Latini
musiche originali: Gianluca Misiti
luci: Max Mugnai
organizzazione e cura: Federica Furlanis
promozione: Nicole Arbelli
produzione: Fortebraccio Teatro
con il sostegno di MIBAC – Ministero dei Beni Culturali
durata: 50′
applausi del pubblico: 2′ 10”
Visto a Roma, Teatro Argot, il 23 maggio 2014