Gli spettatori del Piccolo Teatro Studio di Milano sono seduti attorno alla scenografia. Al centro del palcoscenico una pedana di materiale edile, larga cinque metri per cinque, pare quasi il residuo di una demolizione, con un vistoso buco nella parte anteriore destra. Una sedia, un lampadario vintage da casa proletaria poggiato su questo pavimento sbrecciato, rialzato da terra di un metro e mezzo circa.
Quasi un cantiere, tanto che il pubblico, a respirare ancor più questa sensazione, all’ingresso trova un segnale di plastica (di quelli tipo pavimento bagnato di Mc Donalds, per capirci) che reca la scritta “Natale in casa Cupiello”.
L’attore, l’unica voce di questo spettacolo, entra dalla porta di ingresso in platea, toglie il segnale di allerta, toglie pure le scarpe e entra nell’universo di Eduardo De Filippo da sotto la pedana, attraverso il buco e con un elmetto di plastica in testa, come chi entra in un cantiere messo in sicurezza, dà il via allo spettacolo.
Sono diversi anni che combattevo dal mio pulpitino piccolo piccolo, nelle mie cronache treatrali, chiudendo le mie recensioni degli spettacoli della famiglia de Filippo con la supplica a concedere ad altri artisti il privilegio di portare in scena i testi di Eduardo. Il motivo di questo pregare era proprio nel fatto che la conservazione del patrimonio teatrale di famiglia mi pareva stesse diventando una sorta di campana di vetro sotto la quale i panni del santo si andavano mummificando, e che il tempo stava iniziando a rendere via via più lisi, fragili. Non alludiamo ovviamente a quel livello amatoriale che ancora è vivissimo in tutto il sud Italia, ma della possibilità ai grandi interpreti della scena nazionale di renderlo presente con qualche atto di ardimento, di genio, capace di restituire l’arte all’arte.
Ed è di questa fattispecie che stiamo parlando, dovendo raccontare dell’esito cui è capace di dare vita Fausto Russo Alesi in questi giorni a Milano (fino al 23 dicembre).
Ho iniziato a sorseggiare gli sforzi del regista-interprete già a giugno, nei giorni del Napoli Teatro Festival, con un caffè in piazza Dante davanti al quale Russo Alesi mi iniziò a dire delle sue idee su questa messa in scena. Ricordo una delle prime domande che mi vennero spontanee, ossia chi fossero oltre a lui gli interpreti. Quando mi disse che voleva farne un monologo, mi brillarono gli occhi perché intuivo sia la colossale audacia, sia il rischio terribile di questa operazione, che ovviamente non può sfuggire a un qualsiasi appassionato di teatro cresciuto in quelle sere di fine anni Settanta inizi Ottanta, con le commedie di De Filippo in prima serata tv (bei tempi per il teatro quelli!).
Ardimento e rischio, dicevamo: l’idea più simile che mi veniva in mente era quella del riscrivere una sinfonia per pianoforte, con la speranza sia di riuscire a conservare l’emozione della tessitura musicale originaria sia un nuovo sapore, autonomo. E farlo per quella che per Eduardo era “la commedia affatata”, magica per antonomasia, era un’impresa che avrei voluto seguire. E dunque non sono mancato alla prima.
L’attore entra in scena dichiarando al pubblico che di ciò di cui aveva memoria avrebbe risentito le voci, le lontane eco, ma che avrebbe anche visto i personaggi scorrere sul volto unico dell’interprete.
Il monologo è di sapore assolutamente tradizionale, proprio come lo immagineremmo restituito da un grande attore, che con il capo gira di qua e di là a cercare nello spazio corpi inesistenti, gli ologrammi di Concetta, Tommasino, Ninuccia e i suoi spasimanti, e quel contorno di familiari della commedia; che con la voce e gli attributi mimetici distingue Lucariello dal figlio; che con il corpo crea gli ambienti, le stanze, l’universo.
L’edizione televisiva a colori del 1977 della Rai, per rendere un’idea, dura 132 minuti. La riduzione di Russo Alesi 100 circa. La differenza di mezz’ora è in qualche personaggio marginale lasciato da parte, e in un ritmo ovviamente più serrato, che il monologo rende necessario per non scadere. Cosa che non succede mai, grazie ad un’interpretazione magistrale, capace di rendere le sfumature psicologiche più vere di questi personaggi, tenendoli legati tutti con dei fili invisibili ai muscoli del volto, ad annodarli nella tessitura in quel morbido cashmire della più alta tradizione partenopea, capace in una battuta di passare dalla farsa al dramma e dal dramma alla farsa.
Russo Alesi sta su questo, affronta il testo a mani nude, senza scenografia, lasciando intuire allo spettatore l’universo in cui tutto avviene con un pennello intriso nel borotalco, con cui abbozza porte, stanze e finestre. Con la stessa leggerezza, di tanto in tanto, dalle corde vocali dell’attore pare di veder riapparire Pupella Maggio, o lo stesso Eduardo con il labbro storto, sul letto di morte. Emozioni impagabili perché regalate non da un pre-registrato ma da un interprete dal vivo. Il teatro che fa rivivere il teatro, il pianista che rilegge la sinfonia, facendola propria. E anzi, riesce a restituire una certa audacia del testo che, nell’interpretazione più conosciuta, quella televisiva, non emerge, come l’anima femminella di Tommasino, giusto per menzionare quella più leggibile.
Ma su quel palco scorre tutto il teatro d’attore e di regia degli ultimi trent’anni cui siamo più legati: l’essenzialità di Brook, il gioco magico ma filologico di Ronconi, la pulizia simbolica di Emma Dante, e una prova d’attore che da adesso in poi non possiamo più paragonare ad alcuno, perché (ed era così già da qualche anno, a dire il vero) Russo Alesi è Russo Alesi. Non assomiglia ad altri che a sé.
All’invito a godere di questo capolavoro di reinterpretazione di Eduardo non vogliamo aggiungere molto, se non proprio l’emozione della ragione che sentivamo dentro di noi, del piccolo pulpito nel supplicare, del grande palpito che questo spettacolo ci ha restituito e con cui ci sentiamo di candidare Russo Alesi ai più alti riconoscimenti all’arte attorale e registica che il teatro in Italia assegna.
NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia e adattamento: Fausto Russo Alesi
scene: Marco Rossi
luci: Claudio De Pace
musiche: Giovanni Vitaletti
con: Fausto Russo Alesi
aiuto regia: Giorgio Sangati
produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
durata: 1h 40′
applausi del pubblico: 6′ 38”
Visto a Milano, Piccolo Teatro, il 15 dicembre 2012
Io sono rimasto estasiato dall’interpretazione moderna, da subito… Incredibile l’attore….
Poi la grande scoperta…
Pensavamo che Viviani e De Filippo a causa del codice fascista prima e democristiano dopo si fossero dimenticati dei femminielli napoletani, parti essenziali della nostra vita.
Nella nuova edizione proposta, come nella rumba de’ scugnizzi della nuova compagnia di canto popolare, riappare grazie alla magia del teatro, basandosi su una perfetta interpretazione del testo Tommasiello…
Come il presepe rappresenta la famiglia, è la figlia adultera che lo distrugge, è Tommasiello che non ci si sente mai rappresentato. Come Tommasiello si fa cacciare di casa e vive d’espedienti, come ritorna a badare al padre malato, sono tutti ruoli specifici del femminiello tradizionale.
La scena madre ovviamente è quella del presunto matrimonio impossibile con Ninuccio…
Una grande scoperta, di cui ringrazio l’autore e RAI 5 per averla messa in onda!
Bah, scopo dell’arte non è “servire”. Anzi. Gli esperimenti non “servono”. Gli esperimenti cercano strade. Piacevoli o meno non è neanche importante. Pensi a quanta arte non risultava piacevole ai propri contemporanei e ora per noi è imprescindibile. Gli impressionisti, i futuristi, i surrealisti, i dada, gli informali. A chi servivano? QUindi, Marzio, se mi posso permettere, il tema non è a chi, ma a cosa. E su questo penso si possa discutere, visto che personalmente ho speso articoli e articoli a supplicare la famiglia DE Filippo che deteneva i diritti di permettere ad altri di sperimentare, di far rivivere quelle parole in altra forma. Per altre strade. E quella di Alesi a me pare una strada difficile e intrigante. Una grande sfida ad una parete difficile di una montagna sacra. Se poi vogliamo continuare a vedere sempre il presepietto, la processioncina, e tutto uguale nei secoli dei secoli, allora basta continuare ad andare nei tanti teatrini amatoriali dove il tempo è fermo a trent’anni fa. Comunque vede, il mondo è bello perchè è vario. Lei è tornato a casa deluso, io sono tornato a casa felice. Sa’ quante volte sarà successo il contrario? Secondo me, purtroppo, la maggior parte. Resti comunque appassionato, per sua sorte non capitano molti artisti sfidanti che trasformano opere complesse in monologhi e si sforzano di imparare una lingua per recitare tre ore dando corpo alle voci di una compagnia leggendaria. Nella maggior parte dei casi è tutto più normale. Con cose che servono.
A chi servono questi esperimenti? All’autore? No all’Attore? No e allora perchè