Jurij Alschitz: un artista contemporaneo non è mai contemporaneo. Intervista

Jurij Alschitz
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Jurij Alschitz

Incontriamo il maestro Jurij Alschitz in un pomeriggio piovoso, durante una pausa dal laboratorio che sta tenendo a Pescara con allievi italiani e altri venuti da Russia e Ucraina.
Il laboratorio si chiama “Hortus Conclusus – the art of desctruction for the creation” e si basa sul Giardino dei Ciliegi di Checov (organizzato da Monica Ciarcelluti in collaborazione con Scena Richter presso lo spazio Matta, un ex-mattatoio pregevolmente riattato per il teatro e gestito dall’associazione Artistiperilmatta).
Il maestro beve tè e risponde – è un peccato non poter rendere il suo modo di gestire e di far silenzio.

Da molti anni Jurij Alschitz si dedica ad un’intensa attività pedagogica in giro per il mondo.
A chi non lo conoscesse consigliamo le pubblicazioni italiane di Ubulibri e Titivillus, titoli che espongono gli argomenti basilari della sua ricerca e sperimentazione: il ruolo creativo dell’attore e il teatro del futuro. Li ricordiamo: “La grammatica dell’attore. Il training” (2003), “La matematica dell’attore” (2004), “Teatro senza regista” (2007), oltre a uno appena uscito per Audino, “Training forever! Oltre cento esercizi per allenare il corpo e sviluppare la creatività“.
E’ importante sottolineare lo sforzo di Alschitz nel tenere insieme la tradizione del teatro russo, da Stanislavskij in avanti, con gli approdi moderni e le possibilità future, e anche di questo parleremo insieme a lui.

In un suo recente progetto per la commemorazione di Stanislavskij, lei chiedeva ai partecipanti di definire quale fosse il loro teatro. Anche in tutta la sua ricerca ricorre questa domanda. Le chiedo allora, ad oggi, qual è il suo teatro, e quanto è cambiata la sua idea di teatro negli anni.
E’ cambiata molto ed è in costante cambiamento. Certo, se consideri l’immagine del teatro che avevi nell’infanzia e quella che hai adesso è chiaro sia diversa. Ma si deve riconoscere che lo stesso teatro è cambiato, come è cambiato l’essere umano, il modo di vivere quotidiano, tutto. Ogni anno, ogni mese, ma anzi ogni giorno, ogni mattina svegliandoti dovresti chiederti: “Qual è il mio teatro?” e provare a rispondere in qualche modo. La domanda dovrebbe essere il punto di partenza per ogni giorno di lavoro. Ti chiedi “Il mio teatro è…” e poi esci. Non dovrebbe essere una definizione rigorosa, ma qualcosa che ti guida, che ti fa riconoscere ciò che vuoi durante le prove, durante la performance, e succede anche che questa posizione cambi una o più volte nel lavoro.
E’ come quando ti innamori; in precedenza ti piaceva quell’immagine e poi senti qualcosa e ne arriva un’altra, non è male. Così nessuna immagine di teatro dura per sempre e si evita di diventare dogmatici, di rincorrere soltanto una maniera.
Specialmente in questi tempi mutevoli, dove la vita politica e sociale nel giro di poche ore è sconvolta da nuove conoscenze, è importante per chi lavora nel teatro farsi questa domanda. Anche il teatro cambia, cosa può diventare?
Prima la mia immagine di teatro era una porta che collegava due mondi diversi, diciamo una parte fisica e una metafisica, ma adesso quella porta è scomparsa e non c’è più separazione, non esistono più due mondi, due spazi, ce n’è solo uno in combinazione col resto. I miei allievi messicani fanno un esercizio che consiste nel muovere le nuvole. Si siedono, guardano il cielo e muovono le nuvole. E’ un bel teatro questo. Loro dicono che non soltanto muovono le nuvole, ma che le trasformano anche. Una nuvola in costante movimento che si trasforma e scompare: è una buona immagine di teatro, mi piace.

A un certo punto della sua carriera ha scelto di non dirigere più spettacoli e di dedicarsi all’insegnamento. Cos’ha determinato questa scelta?
In realtà mi capita di fare qualche produzione, una volta ogni tanto, tuttavia preferisco insegnare. Insegnare è per me un ambiente ideale per fare teatro, è come trovarsi su un’isola, non ci sono pressioni, fai ciò che senti, ciò che vuoi. E poi vedo i miei colleghi, registi, gente di teatro, che soffre e dice che la mia vita, in confronto alla loro, sembra una vita felice.
Insegnare non è stata una decisione, facevo il regista, poi è successo e ho capito di avere una vocazione, di trovarmi a mio agio. Nella scuola di Vasiliev a Mosca si liberarono delle cattedre e lui mi spinse a fare l’insegnante. E’ successo e mi è piaciuto. Adesso credo che per me sia il miglior modo di fare teatro.

Lei ha spesso parlato dell’importanza dell’insegnamento come pratica teatrale, ossia un nuovo modo di relazionarsi con gli allievi. Pensa che il teatro sia il miglior modo di trasmettere conoscenza?
Non credo che la conoscenza si possa trasmettere. Credo sia più un processo di apertura, accendere qualcosa nell’allievo, creare un circuito tra lui e il maestro.

Il suo training sembra riportare gli attori a uno stato di creatività primordiale: ricorrono i paralleli con il dinamismo degli elementi naturali, con le nuove scoperte scientifiche, il movimento degli atomi, delle cellule, oltre a contributi di altri campi artistici come la musica. Lei vuole creare un ambiente da cui sia possibile far germogliare ciò che più le sta a cuore, la forza immaginativa. Da dove sono partite le sue ricerche, che modelli ha avuto, e come considera l’ambiente che ha creato?
Ho sempre pensato al teatro come connessione di più campi del sapere, non ho mai voluto precludermi delle possibilità, rimanere in una specialità chiusa. Qualsiasi campo può essere utile per comprendere il teatro, perché il teatro è parte del mondo, e ogni conquista scientifica, che sia matematica, filosofica, astronomica, può farmi comprendere meglio il teatro. Posso trasporre tutte queste conoscenze sulla scena, e funziona. Non sono certo il primo ad usare questo metodo, c’è stato ad esempio Mejerchol’d con la biodinamica o lo stesso Stanislavsky che riprese i riflessi pavloviani.
Ogni settimana abbiamo nuove scoperte e non riusciamo a capire in pieno quanto influenzino la nostra vita. Il teatro può utilizzare Einstein, la cibernetica, la pecora Dolly. Diversi anni fa ho visto un pollo-patata. Avevano incrociato geneticamente un pollo con una patata, ed era vivo, era una cosa tremenda, ma si può fare. Si può collegare qualsiasi cosa. Così nel teatro legare un personaggio a un altro e un altro a uno più diverso ancora. Intendo il teatro come una meravigliosa liberazione, non psicologica, non sociale, non umana…

Al centro del suo insegnamento c’è il concetto di libertà, di cambiamento continuo per evitare ogni tipo di dogma e schiavitù, si potrebbe dire un sistema dell’antisistema, o, come dice lei, una sfera. Le chiedo, come si lega questo procedimento alla creazione di forme, come uno spettacolo teatrale ad esempio, che hanno in qualche modo tendenza alla stasi e alla ripetizione. Dunque, che rapporto c’è tra la fluidità del processo e l’opera d’arte che ne può risultare?
Anche le opere d’arte contemporanea riflettono il cambiamento. Pensa alle installazioni mutevoli che tengono conto dell’intervento esterno, dell’ombra, della luce, o sono fatte in modo di attivare una costante variazione. Noi aspiriamo alla stabilità: una vita stabile, una casa stabile, il cambiamento ci fa paura. Ma ogni secondo si cambia. Il teatro non può essere ripetizione, ogni performance è una creazione, ogni volta dev’essere attivato un processo creativo: è magia rispetto alla mera ripetizione. Se tu crei, ripeti nel giusto modo. E’ più rischioso, più instabile, e ogni volta, con occhio attento puoi gustare le variazioni, accorgerti delle differenze, puoi vedere quella performance ogni giorno. Enormi cambiamenti come il Big Beng che creò il nostro universo si ripeteranno; dicono al massimo tra sei anni la nostra società cambierà completamente nel giro di trecento ore. Dobbiamo abituarci all’idea che il mondo che conosciamo non sarà per sempre. L’arte riflette su questa sorta di fragilità. Se non ne teniamo conto ci troveremo spiazzati.

L’analisi del testo, l’esplorazione delle possibilità di un testo, la sua distruzione e ricomposizione sono alla base del lavoro dell’attore. Che posto ha invece la creazione di nuovi testi, che tipo di drammaturgia per il teatro futuro?
Creazione/distruzione: è il principio della natura. E’ una legge cosmica ed è una costante religiosa: vita, morte e vita dopo la morte. E’ un mito che vive in noi, c’è il mito dell’eterno ritorno e quello della ricreazione, che sono due cose diverse.
Ci sono vari modi di concepire il testo in scena. Non si tratta più di testi letterari, il testo teatrale non può essere più un testo letterario, dev’essere un testo teatrale: il teatro parla di per sé. Oggi è questa concezione a dominare la scena come prima avveniva il predominio del testo sul teatro, il predominio della parola, della parola letteraria.
L’attore è stato per molti anni dire servo della parola, mentre ora a prendere il sopravvento è l’attore, il regista, il teatro; e la letteratura, se mi passate il termine, passa a servire la lingua teatrale. La cosa migliore sarebbe un equilibrio fra testo letterario e teatrale, tuttavia dopo una lunga dittatura del testo bisogna lasciare che la rivoluzione teatrale faccia il suo tempo.
Penso che con le nuove tecnologie il teatro diventerà la forma artistica più popolare. Il teatro è l’unico luogo in cui reale e irreale esistono nello stesso spazio e tempo. Il tempo in cui il falso diventa più vero del vero, è il tempo migliore per il teatro. Uno schermo non riesce a dare come il teatro l’illusione di realtà. Ecco che il teatro diventa il punto di partenza per arrivare altrove, una forza che nessun’altra cosa riesce ad avere, ti dà la possibilità di lasciare il luogo fisico e di spargerti, viaggiare altrove, come fa la musica, come in un enorme ipertesto, come nella geometria frattale, e poi ritorni, vedi i tuoi amici, ciò che ti circonda. Il teatro è questa possibilità.

Lei dice spesso che l’attore del futuro dev’essere un segno, attraversare il ruolo, essere anonimo. Può spiegarci le caratteristiche di questo attore?
Il pubblico non è più interessato all’umanità sulla scena, a questo tipo di testi, di narrazione, non si cura più della vita privata, psicologica dei personaggi. Non ci si immedesima nel personaggio, non ci interessiamo della vita di un altro, l’individualismo ha cambiato molte cose.
Se per strada assistiamo a un incidente non ci mettiamo nei panni dello sfortunato, continuiamo per la nostra strada, quella non è la nostra vita. Non posso identificare il personaggio con me.
L’attore dev’essere un efficace strumento, agire come vetro soffiato, io non devo sapere chi è lui, qual è la sua vita, mi curo di quella pratica, dell’incanto di quel vetro soffiato. E con questa distanza tra arte e attore, grazie a questa differenza, l’attore può condurre oltre il pubblico, può farlo con il ritmo, le idee… L’attore dev’essere presente e sparire. Non sopporto più l’attore che si mette davanti, che chiede: guardatemi sono un attore. L’attore deve sparire, essere una forza proteica, uno strumento raffinato, una guida. Ho creato una delle mie migliori performance in un teatro vuoto. Era un bel teatro all’italiana, e quando gli attori sono usciti io non mi sono alzato, sono rimasto seduto a guardare la scena. C’era ancora l’energia cinetica sospesa sull’assito, intravedevo scie di movimento, il vuoto era pieno di possibilità lasciate in sospeso, e io riprendevo quei fantasmi e li conducevo. Sono rimasto lì per quasi un’ora, uno spettacolo magnifico. L’attore dev’essere delicato, arrivare quando è necessario, per il resto gradirei che mi lasciasse in pace.

Lei ha spesso dichiarato che il teatro deve ricevere il mondo esterno, esprimere il mondo contemporaneo. Quale dev’essere il rapporto fra il teatro e il suo tempo, e quale il ruolo del teatro nella società?
Il teatro deve portar fuori, essere una liberazione. In rapporto alla società lo intendo come una stazione di rifornimento: dà energia.
Con i problemi di lavoro che viviamo oggi, con la gente che usa al minimo la propria creatività, per ogni cosa basta un minimo sforzo, un clic; la pigrizia, la rassegnazione spinge verso lo stato vegetativo. Il lavoro intellettuale dei nostri processori era di gran lunga superiore alla nostra attività celebrale, loro si ingrandivano, noi ci svuotiamo.

E come può il teatro dare energia?
L’arte può essere una fonte energetica basilare, può rimettere in movimento la nostra immaginazione, che è fondamentale per vivere.
Inoltre il teatro non può essere contemporaneo, deve mantenere una distanza dal suo tempo. Un artista è bene che non stia immerso nel fiume del presente. Tutti vogliono essere contemporanei, andare di pari passo col proprio presente. Ma si deve creare un’opposizione, un equilibrio. Un artista contemporaneo non è mai contemporaneo. Andare al passo con i tempi è volgare. Meglio allora l’estrema avanguardia o l’estrema retroguardia. Insistere con la cultura di massa, con il gusto di massa? No, sarebbe troppo volgare. Occorre prendere distanza dal proprio tempo.

Nel suo libro “Teatro senza regista” lei prospetta il teatro del futuro e la compagnia teatrale del futuro, ovvero un gruppo senza nessuna dittatura, come quella del regista, un gruppo che si muove all’unisono, in armonia, come uno stormo d’uccelli.
E’ un po’ troppo ambizioso pensare che l’essere umano sia al centro di tutto. L’uomo non è il soggetto giusto per decidere cosa fare. Penso che sia qualcos’altro, chiamatela energia creativa, chiamatela quella forza che tiene i pianeti, non voglio dire dio, ma un istinto che riusciamo a sentire anche in noi.
Che Obama, la Merkel, Renzi controllino la nostra vita è soltanto un’illusione; gestiscono la vita politica ma è una copertura al fatto che chi manovra non sono loro, è un’illusione di controllo. C’è qualcosa che può creare armonia tra le persone, farle muovere insieme; se gli attori, il regista, il coreografo riescono a percepire quest’energia si procede insieme come uno stormo d’uccelli.

Il teatro che considera valido, il suo teatro, lo vede presente sui palcoscenici contemporanei?
Per me è un ideale. Ho creato un teatro come vorrei che fosse. Non sono un ottimista primitivo che crede che domani sia possibile realizzare queste idee sulla scena. E’ come per Pirandello: lui aveva grandi idee teatrali, ma poi c’era la realtà del teatro italiano del suo tempo. Nel finale dei Sei Personaggi assistiamo all’abbandono del teatro: non si crede più nella possibilità del teatro di realizzare quelle idee teatrali, che perciò vengono abbandonate. In questo caso, cosa dovrei fare io? Seguire la realtà del teatro o la mia idea di teatro? Io creo e non è un problema che sulle scene ci siano cose diverse, non soffro per questo, sono contento della mia creazione.

Qual è la sua opinione sul teatro italiano contemporaneo?
Non credo in queste definizioni nazionali e nazionalistiche. Dopo aver viaggiato molto e visto il teatro di ogni zona capisci che il teatro è uno. Hai una visione dall’alto. Sono felice di essere arrivato a questo modo di vedere. Ti senti legato alla storia e alle molteplici forme del teatro e insieme vedi teatro maya, teatro balinese, Ronconi…
E’ ridicolo dire questo è il teatro italiano, questo è il teatro bulgaro, questo è teatro tedesco. Tutto è in relazione, come nella medicina cinese; si devono considerare le parti interconnesse, in Europa invece c’è uno specialista per ogni cosa. Io dico: fammi sentire il polso.

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