
meglio
non va meglio,
non può andare meglio,
non può andare meglio di
così,
non può essere più fantastico;
e per quanto vada male,
non può andare meglio. […]
(John Giorno, Non va meglio)
All’interno del progetto “All!” di Kinkaleri s’inserisce la doppia performance “Someone In Hell Loves You” presentata con John Giorno a Contemporanea 13 a Prato dopo essere stata al Terni Festival.
Il padre della ‘spoken word’, nonché ideatore di un proprio Poetry System, è passato per le sale del Fabbricone assieme a “It Doesn’t Get Better”, poesia del 2008 duplicemente tradotta sulla scena attraverso il respiro e l’energia ad emanazione diretta del poeta e l’ultima tappa di prova del codice coreografico del gruppo pratese.
Formazione, tecnica, motivazioni e riflessioni sull’arte e sulla vita di un uomo sono trascorse nell’orizzontalità di un incontro, alla fine di questo gioco di significanti e contenitori che intrecciava due pratiche artistiche.
John, pensi che la tua poesia sia cambiata all’interno di “Someone In Hell Loves You”?
No, la mia poesia non cambia. Si è trattato di mettere in parallelo due modi diversi di performarla, di fare in qualche modo lo stesso lavoro. Il risultato è quello che vedi, una mixture di forme.
Trattandosi di mixture, cosa accomuna le due identità in gioco?
Credo che entrambi ci muoviamo nella direzione di rompere con le suggestioni, di staccarci dalle proposte e dai risultati ottenuti da altri. Se pensi al Modernismo è morto, se pensi al Classicismo è morto, se pensi a tutto quello di cui abbiamo parlato stasera è tutto morto, eppure noi continuiamo ad inserirci nel fluire.

Massimo Conti: In realtà anche noi, all’interno del lavoro, abbiamo utilizzato Giorno per portare il confronto con il nostro rapporto performativo nel trattare lo stesso oggetto, il materiale poetico della pagina scritta. Lui era con noi proprio per questo: oltre che essere uno scrittore di poesie, essere anche un performer delle proprie poesie. Quindi, noi che avevamo già danzato la sua pagina scritta nell’invenzione di questo codice, abbiamo poi costruito questo contenitore per mettere insieme entrambe le cose: noi e lui in quanto portatori dello stesso oggetto, cioè di quella parola scritta.
Il primo incontro con John Giorno per noi è arrivato con l’invio della sua poesia. La traduzione che hai visto è la prima traduzione italiana di “It Doesn’t Get Better”, l’abbiamo tradotta in italiano perché la danza che stiamo sviluppando sui testi poetici è comunque una danza tradotta. Quindi il primo incrocio-incontro resta sempre la pagina scritta, con cui abbiamo costruito il contenitore all’interno del quale far incontrare lui, creatore e portatore fisico del proprio fare poetico – scritto e pensato anche in rapporto alla scena, al suo dire – e noi ovviamente, che srotoliamo una costruzione già fatta sotto un altro piano, quello fisico, coreografico, dinamico, spaziale, temporale, musicale.
Questo lavoro nasce sulla sua presenza, oltre che sulla sua poesia. Perché sulla sua poesia era già successo, l’occasione di avere lui era proprio l’occasione di costruire uno spettacolo che mettesse in scena le due cose. Il lavoro che abbiamo fatto sulla poesia non è infatti tanto sul suo contenuto, su quello che dice, ma sulla forma poetica. Quindi, in questo caso, il pezzo che lui avrebbe scelto per noi era quasi indifferente.
In questa tappa di All! era necessario confrontare due mondi, e per questo la poesia poteva essere tranquillamente spezzata. A noi serviva come frammento di una partitura coreografica che si concludeva, che utilizzava la struttura poetica per comporre, e quindi non siamo entrati in merito alla suggestioni che poteva darci, perché noi l’abbiamo utilizzata veramente come grammatica, come rapporto formale e ritmico.
In altri casi, oltre a lavorare sulla poesia come grammatica, ci ha suggerito anche delle atmosfere, degli ambienti.
Gina Monaco: La scelta della poesia era una sua scelta, una scelta rispetto a quello che per lui era necessario in questo momento esplicitare. E quindi non è stata confrontata; lui ha deciso che in questo momento era quel tipo di poesia – tra l’altro scritta nel 2008, e a cui dice di non aver mai lavorato tanto; forse questa poteva essere un’occasione. Per questi due oggetti diversi abbiamo creato un dispositivo che dispiegasse il loro incontro nella maniera più diretta e lineare, e che facesse diventare tutto il rapporto assolutamente grammaticale: da un lato c’è lui, la sua esperienza, il suo modo di fare, la sua vita; dall’altro noi e la costruzione di questo alfabeto. La poesia diventa tema nel momento in cui viene assorbita e, come diceva Marco, detta il ritmo e il tempo di tutto, venendo immagazzinata da un corpo che ne restituisce il suono, la qualità, la frase, la pausa, il silenzio.

Marco Mazzoni: Sono entrati innanzitutto grazie alla loro ricerca costante di nuove forme di utilizzo della scrittura. A livello generale ereditiamo quel momento storico e quella modalità che era propria, ad esempio, di Burroughs di porsi sempre alla ricerca della forma narrativa o non narrativa di utilizzo della parola. Ma non tanto perché abbiamo deciso di lavorare su quello, ma perché abbiamo capito che lì c’erano delle similitudini che ci riguardavano.
“All!” in qualche maniera diventa l’amplificazione di tutto questo: in “All!” si tenta da una parte di ricostruire un codice con cui ricominciare a definire, dall’altra però ci si assume anche la libertà di romperlo.
Non a caso, se cominci a mettere in fila tutte le tappe, capisci come di volta in volta ci sia anche un tentativo di spostamento dalle relazioni che inneschiamo con i musicisti svillupate nei progetti “Twothousand”, “Threethousand”, “Fourthousand” – dove partendo sempre da un testo che è un cut-up lo ridefiniamo quasi come fosse una struttura lirica che viene reinterpretata ogni volta – fino a tutti i progetti di traduzione del testo attraverso il corpo, dai primi “For Gun No Fake You” (dove Jacopo Jenna e Simona Rossi si rapportano prettamente sul rapporto coreografico e vanno a sviluppare un linguaggio che diventa sicuramente più astratto perché scompare anche il significato della parola). O se pensi, ancora, a “Everyone get lighter” che comincia ad entrare dentro lo sviluppo del codice in relazione con il pubblico, fino ad arrivare all’incontro di ieri sera, che mette in parallelo questi due mondi e innesca questo tentativo per farli stare insieme, di metterli a confronto includendo il pubblico su cui viene riversato il codice. Queste sono le eredità che prendiamo da quel tipo di atteggiamento.

Marco Mazzoni: A mio parere, si mette in gioco la sacralità dell’artista. Giorno non viene riconosciuto tanto come padre ma per una pratica che lui continua a mettere in atto e che noi mostriamo nella sua evidenza; così entrambe le performance possono fare a meno l’una dell’altra però, paradossalmente, entrambe si toccano. L’idea di cercare continuamente altro è già un’idea che mette in discussione l’idea dell’artista che dà il suo segno assoluto, univoco. E credo che Kinkaleri, volontariamente o no, nella sua pratica di questi anni continui in questo suo smentirsi ed affermarsi, sapendo già che poi si smentirà. La convinzione della scelta di un momento può poi stridere la volta dopo. E questo non perché la scelta iniziale non vada più bene, ma semplicemente perché entri dentro a un altro pensiero. In questo senso c’è una messa in discussione della forma autoriale tout court.
Gina Monaco: Comunque, anche quella generazione ha un rapporto abbastanza strabico coi padri. John ieri sera diceva che in realtà i padri della poesia erano quelli più accademici, classici, e lui ha dovuto cercare altrove per rompere in qualche modo gli schemi. Ha cercato nell’arte dove i sistemi venivano messi maggiormente in discussione, e dove c’erano altre regole che gli hanno permesso poi di rompere quello che nella poesia ha una struttura e una paternità più definita. L’essere figli di qualcuno è un dato di fatto che viene ridotto e assorbito.
Marco Mazzoni: Se pensi a tutte le relazioni di cui John ci parlava durante lo spettacolo (Patti Smith, Laurie Anderson, Lou Reed) e al racconto del suo legame con gli artisti pop, è come se individuasse in quel rapporto popolare di comunicazione uno scarto che ancora non hanno fatto alcuni poeti, quello della divulgazione e dell’utilizzo di un certo tipo di linguaggio. L’utilizzo del telefono con gli Dial-A-Poem arriva proprio all’incrocio con la pop art.
Massimo Conti: Se poi, per esempio, non usassimo lo schema padre-figlio, potremmo entrare in una dimensione che scorre sempre sul fondo, e che è quella di una minorità all’interno della storicizzazione della cultura. A questa credo appartenga tutto il lavoro dei Kinkaleri, e nella quale di conseguenza anche qui si specchia.
Quando decidi di non crescere, di non fare un salto, nel sistema teatrale italiano, da una dimensione di ricerca al riconoscimento di questa ricerca che diventa poi rappresentazione di se stessi, secondo me questa rappresenta una dichiarazione di appartenenza a un determinato piano culturale. Per cui non ti interessa andare oltre, perché il tuo oltre è esattamente lì: continuare il tuo percorso di ricerca durante il quale ti ritrovi continuamente di fronte a nuovi oggetti da esplorare.
Questo discorso sulla poesia, per noi, viene dopo un’altra grossa area di lavoro, che è stata l’attraversamento del testo. Incentrata sulla ricerca di un rapporto totalmente diverso, che se vuoi torna anche oggi, sulla rappresentazione del dialogo a teatro – noi l’abbiamo trattato da una parte con un tavolo, un performer e dei giocattolini che fanno i vari personaggi sull’opera “Ascesa e caduta della città di Mahagonny” e dall’altra l’abbiamo completamente nascosto dentro la gola di una ventriloqua. In questo caso il progetto si nutre di uno spirito artistico che pretende di fare ciò che vuole e ciò che può. Ieri infatti al centro di tutto c’era un incontro tra forze.
Come è stato costruito l’apparato musicale, lo sfondo sonoro di questo incontro?
Massimo Conti: Quello che hai sentito ieri era un apparato musicale molto diverso dal solito, ma anche molto legato a tutto quello che è successo in questi anni. I lavori di questi anni, non considerando i concerti che ovviamente da questo punto di vista rappresentano un discorso a parte, prendeva molto delle sonorità di un reale per portarle all’interno dello spettacolo e le mischiava con il registrato di un altro reale, creando una sorta di rapporto indistinto tra i due, tra il reale e la sua rappresentazione. Qui invece abbiamo rinunciato a questo rapporto per portare tutto sul piano della rappresentazione, però utilizzando dei rapporti: un battito di cuore, delle tracce sonore di Miles Davis e dei feed recordings di John Cage, dove i livelli (fatta eccezione per la parte iniziale del cuore che è un po’ più alta) viaggiano sempre su un volume costante.
Marco Mazzoni: Questo è anche funzionale all’apparato coreografico, perché la prima parte ha anche la funzione di dimostrare un’idea di struttura più compatta e tradizionale; il sonoro infatti viene inserito come elemento strutturale per una coreografica non didascalica, che però si base su strutture compositive abbastanza classiche. Abbiamo riutilizzato queste cose per pensare a una composizione, creare un ambiente qui diventa traccia.
Questo ha a che fare con l’esternazione del codice di cui parlavamo prima, ma anche con la poesia di John Giorno, quando lui dice “nel fluire incessante,/ sono qui per fare/ qualsiasi cosa ti aggradi,/ parole vuote,/ perse senza lasciare traccia./ Tutto ciò che dovevo fare,/ era/ sbarazzarmene/ tutto ciò che dovevo fare/ era sbarazzarmene”. Quindi il cerchio si chiude con l’esternazione del codice?
Marco Mazzoni: Il senso di questa poesia sta nella saggezza, lo stesso rapporto che c’è anche con la vita. Nei suoi discorsi non c’è mai una cosa che è bella o brutta.
Gina Monaco: Tutto quello che lui ha attraversato, dall’oralità alla multimedialità, è tutto materiale assolutamente vivo. Quando parla dell’età dell’oro della poesia include anche l’oggi, proprio per la capacità espansiva che alcuni strumenti ti danno. Giorno non sublima niente in questa sua continua trasformazione. E anche quando parla di quello che ha fatto e che ha avuto una certa intensità, ce l’ha tuttora in un altro modo.
Lui era molto divulgativo nella sua presenza, e anche noi abbiamo in qualche modo asciugato la comunicazione su un sistema di necessità più immediata: “Io ti racconto la mia vita, io ti racconto quella che per ora è la base del mio livello di comunicazione”. E’ tutto sullo stesso piano, un dispiegamento che include anche il pubblico. Se vuoi, un dispiegamento semplificato di accadimenti molto densi ma anche semplici. Un dispiegamento che ingloba noi tutti, quello che resta dell’esperienza, lo scheletro, l’anatomia, questo dire dei fondamenti della vita e del vocabolario…

performance con Jacopo Jenna, Simona Rossi, Marco Mazzoni
con la straordinaria partecipazione di John Giorno
realizzato da Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco
produzione Kinkaleri
in collaborazione con Fondazione Teatro Stabile dell’Umbria, TerniFestival, Terni,
Contemporenea’13, Prato
con il sostegno di Mibac – Dipartimento dello Spettacolo, Regione Toscana