Per cercare una risposta a questa domanda, Timi ha creato uno spazio teatrale angusto, minuto, limitato, come quello consentito dalla scatola cranica, che però dentro accumula musiche, canzoni, video e immagini, che si mischiano e rimescolano in dense nuvole di fumo, secondo un andamento del tutto caotico, con la stessa irrazionalità di un flusso di coscienza.
Timi scrive quindi un monologo interiore in cui non si limita a immedesimarsi nella cugina, ma prova a fondere sé, la propria vita e i propri sogni, con quelli di un altro se stesso immaginario ma disabile: ecco quindi l’infanzia, l’adolescenza e il presente che avrebbe vissuto e vivrebbe un Filippo Timi ‘diverso’, una vita non guardata dall’esterno, ma esplorata nei suoi antri.
Si scopre allora un mondo interiore in realtà non molto differente da quella che riteniamo essere la normalità: la stessa passione per certe icone anni ’80, per la musica, il pattinaggio, la stessa prorompente sessualità; il tutto compresso però in uno spazio chiuso, in qualche modo sigillato con l’esterno. Ed è soprattutto questo il vero nucleo tragico della questione, secondo Timi. Impossibile avere un amore che soddisfi i sogni più romantici, irraggiungibile il desiderio di un rapporto sessuale, difficile persino esprimere le voglie più semplici, perché il tentativo di una carezza verso un familiare può trasformarsi in un gesto fatale.
Se poi si aggiunge una ottusa chiusura mentale anche nelle figure genitoriali, che rifiutano di accettare la crescita del bambino prima in un ragazzino con la sua ingenua aspirazione alla felicità, poi in un uomo con i suoi inevitabili impulsi sessuali, tutto degenera in un’esistenza grottesca, con la stessa pettinatura infantile imposta al corpo di un uomo ormai quarantenne, destinato, a Carnevale, ancora a ridicoli travestimenti da bambino.
Perché non è solo la scatola cranica a non voler crescere, ma l’umanità stessa che si ostina a rimanere piccola.
In questo racconto Timi non dà voce solo alla disabilità del singolo, ma insieme tratteggia un contesto più generale poco edificante: un’Italia molto naïve fatta di dialetti regionali ed espressioni verbali piene di ingenuità o cariche di volgarità gratuite, di miti nati da una televisione priva di pretese intellettuali, e di famiglie tutt’altro che eroiche.
Così, ad esempio, il mistero della morte non viene sondato né attraverso il dogma religioso, né attraverso alcun pensiero filosofico di sorta, ma si affaccia attraverso l’ingenua sceneggiatura di una serie tv nipponica come Candy Candy.
E quando in questo universo buio e meschino si affaccia il volto splendente di una qualche forma di arte, allora il tono grottesco si avvicina al tragico. Perché la scoperta della perfezione attraverso gli occhi di chi è destinato perennemente a movimenti goffi e incontrollati, non può che essere profondamente dolorosa: il Timi disabile si incanta di fronte alla grazia miracolosa di un pattinatore sul ghiaccio, e non può che disperare di poterlo raggiungere. O ancora la sua voce, capace più di versi che di parole, quando si sovrappone alla bellezza superba della migliore Edith Piaf, non può che ottenere una toccante umiliazione. Alcuni costretti entro esistenze minutissime, altri dotati di una perfezione che vola fino in cielo.
Inutile chiedersi se la ricostruzione della mente che ci viene offerta sia più o meno verosimile. Timi ci avvicina a questo mondo gettando un ponte per uno scambio affettivo, invitati ad un maggiore sforzo empatico verso la diversità, il tutto su un palco ridotto, che riproduce l’ambiente scarno di una palestra ristretta ma riempita da oggetti ingombranti.
Con lo stile strabordante e variopinto che lo caratterizza, lasciando scandire il tempo del dramma da canzoni eseguite dal vivo da un notevole Andrea di Donna e video presi da Youtube, Timi mischia con disinvoltura brani da avanspettacolo a improvvisi lampi poetici, senza applicare alcun filtro apparente. Il risultato è uno spettacolo piacevole ed emozionante.
Allontanatosi, rispetto ai precedenti “Amleto” e “Don Giovanni”, dai grandi testi letterari, si amplia qui la tendenza all’autobiografismo, regalando al personaggio una tenerezza e una vividezza che facilita di certo l’immedesimazione dello spettatore nel mondo emotivo del protagonista, portandolo a “schiantarsi” con lui nella disperata ricerca della felicità.
SKIANTO
uno spettacolo di e con Filippo Timi
e con Andrea Di Donna (voce e chitarra)
luci: Gigi Saccomandi
costumi: Fabio Zambernardi
produzione: Teatro Franco Parenti / Teatro Stabile Dell’Umbria
durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 2′ 40”
Visto a Milano, Teatro Franco Parenti, il 31 marzo 2014
Prima nazionale (ora in tournée)