Maternity Blues: dentro al dramma della donna

Maternity Blues
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“Ci sono giorni calmi, qui, silenziosi, dove non ci diciamo niente. Lavoriamo, facciamo quello che ci dicono di fare, ma non riusciamo a parlarci. Siamo afone e dure, dei giorni, con le facce bianche dei sassi e la testa vuota. Ci passiamo vicino quasi con fastidio, con irritazione, coi cinque sensi smorti e una tempesta, dentro, che non esce mai”.

“Maternity Blues (From Medea)” (Sironi Editore, 2004) – da cui sono tratte queste parole – è il titolo di un testo per il teatro scritto da Grazia Verasani, più nota per il suo “Quo Vadis, Baby?”, da cui è stato tratto l’interessante film di Gabriele Salvatores, del 2005, con la cantante/attrice Angela Baraldi, anche protagonista della miniserie omonima andata in onda nel 2008, alla regia Guido Chiesa.

Uno sguardo al femminile intimo e drammatico, capace della leggerezza uterina che può sfociare in cambi umorali repentini: come un acquazzone estivo che, con la stessa facilità con cui esplode, così scompare all’improvviso; e con lo stesso carico di sedimentazione e di accumulo in cui si stratifica, esplode all’esterno con forza tragica, pari e opposta, per poi tornare a nascondersi.

Nocciolo della fusione a freddo creativa della Verasani per “Maternity Blues” è il dramma della depressione post parto. Nella sua carica emotiva, il testo ha avuto una trasposizione per il cinema nel 2011, per mano di Fabrizio Cattani, che ne ha firmato la sceneggiatura con la Verasani, passando per la sezione “Controcampo italiano” del Festival di Venezia di quell’anno.

E come poter dimenticare, in qualsiasi società maschilistica e narcisistica, non ultimo quella italiana, o meglio quella che viene delineata da televisione e luoghi comuni della nostra non cultura, i personaggi pubblici e politici “garanti” di tutto questo? Come dimenticare dello stupro subito, di qualsiasi forma e grado, che viene accollato alla donna dall’uomo capace di vederla, più che compagna, come madre e martire personali, oggetto per il proprio ripulisti quotidiano?

Violenze domestiche, barbarie, stupri singoli e di gruppo sono bollettini di guerra quotidiani che dovrebbero essere ascoltati con attenzione, e portare a riflettere, invece di far parte di quel tappeto sonoro di notizie che circolano nell’aria, confuse, e a cui non si presta affatto attenzione.

“Voi che chiamate benedetti i vostri grembi gravidi
non lanciate il vostro anatema su deboli e reietti
grande fu il suo peccato ma grande è la sua pena
Anche voi, di grazia, non vogliate sdegnarvi:
ogni creatura ha bisogno di essere aiutata.
(da “Dell’infanticidas Maria Farrar” di B. Brecht)

Queste le parole che accompagnano invece la messa in scena per il teatro del testo della Verasani per mano di Elena Arvigo, alla regia e come una delle interpreti dei quattro personaggi, tutte donne, tutte bravissime: sul palco con lei Sara Zoia, Elodie Treccani e Xhilda Lapardhaja. Un’opera tutta al femminile, che ha l’ambizione, come si legge dal foglio di sala, di “guardare attraverso la rappresentazione teatrale la grandezza, nel bene e nel male, dell’animo umano, delle sue ombre e dei suoi inspiegabili squarci di luce, laddove sembra persa l’ultima speranza. (…) Non si pretende di psicologizzare azioni così “tragiche” da restare comunque inesplicabili, ma di investigare sui suoi punti di rottura. La responsabilità è anche sociale. Questa comprensione non implica necessariamente né l’assoluzione né la condanna. (…) Premio, sogno e obiettivo di questa ricerca è la nascita del dubbio come forma di prevenzione dal giudizio e quindi come possibile metodo di pensiero per una società fatta di individui “intelligenti” che pensino alla possibilità di prevenire prima di giudicare”.

Elena Arvigo, 35 anni, genovese, ha mosso i primi passi a teatro con Giorgio Strehler, continuando con Nekrosius e Binasco, e arrivando anche al cinema, con piccoli ruoli per Pieraccioni, Virzì, Greenaway, e altri ancora. Alla sua prima, sorprendente, regia, avvistata al Teatro Argot di Roma lo scorso dicembre, che si invita a investigare dove continui la propria tournée, mentre è sul palco con un assolo d’attrice per “4:48 Psychosis” da Sarah Kane, regia Valentina Calvani, commuove e convince con questa opera d’interni, anzi di internate, in una prigione/ospedale.

Quattro donne ben diverse tra loro che, nolenti o volenti, dovranno scontare la loro pena di fronte alla società, e se stesse, l’una a stretto contatto con le altre: Clara, Eloisa, Rina, Vincenza, segnate dalla macchia più grande, quella di non aver sopportato il proprio ruolo di madre, estirpando alla radice la sua fonte, sottraendo a se stesse e a questa terra i propri figli.
Novelle Medee si trovano a parlare, agire, sognare, dimenticare, ma soprattutto ricordare ciò che erano, hanno fatto e non sarà più per loro.

La scena è essenziale, scarnificata al massimo, come le quattro reti che si trovano di fronte allo spettatore, giacigli senza materasso, nella loro scomodità necessaria. Un tavolo, pochi altri oggetti ed effetti personali di scena, dei cambi di vestiti, un Natale e un Capodanno da festeggiare, ma in vista di quale futuro?

Di fronte alla piccola platea, una “porta” trasparente, da cui si avvistano le protagoniste alternarsi, in una luce che vira in verdeceleste, uno schermo ultravivido da cui si possono ascoltare i loro pensieri più intimi, più nascosti.
La regia abbraccia una interpretazione immediata, naturale, generosa delle quattro, così diverse tra loro, ma capaci di essere un tutt’uno, sfaccettature della stessa pietra preziosa che è l’essere umano, nel suo imperfetto cammino.

Si prova “simpatia” per queste anime rotte, nella sua accezione greca di “provare insieme”, “patire insieme”, le gioie, ma soprattutto i dolori, di chi viene guardato soffrire per ciò che lo corrompe ora, la propria impossibilità a continuare. Perché la società dimentica molto, tutto, ma non ciò per cui si sarà additati per sempre. E l’uomo scorda a volte la decenza, ma non il proprio errore.

Una lama taglia la luce di speranza che sembra insinuarsi in scena, macchia di sangue un urlo disperato, di aiuto, e raggela gli spettatori, macchiando il loro sguardo di lacrime. Un finale che segna, com’è evidente dall’applauso che dapprima nasce impercettibile per poi aumentare forte, lungo e partecipe.
Le attrici guardano, stanche e commosse, a caccia di condivisione. Perché è di questo che tratta, “Maternity Blues”: nella società che volta le spalle e cancella, invece occorre continuare a guardare, per non dimenticare, e se non si può condividere, almeno avere la capacità di comprendere e aiutare l’altro, e così facendo anche se stessi.

MATERNITY BLUES (from Medea)
di Grazia Verasani
regia Elena Arvigo
con Elena Arvigo, Sara Zoia, Elodie Treccani, Xhilda Lapardhaja
musiche Giuseppe Fraccaro
assistente alla regia Tommaso Spinelli
scene Lorenza Indovina
luci Paolo Meglio
foto di scena/grafica Serena Carminati
durata: 60′

Visto a Roma, Teatro Argot, il 20 dicembre 2012


 

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