
La situazione descritta è piuttosto semplice: un naziskin, rimasto colpito in un’azione offensiva contro un gruppo di rom, si ritrova a tenere in ostaggio una donna zingara, mentre lotta contro le conseguenze della ferita subita.
A introdurre la narrazione una soluzione registica capace di sintetizzare in breve l’antefatto, ovvero il processo per cui i due protagonisti sono spogliati dalla vita delle proprie identità e delle proprie aspirazioni. E’ lo scoppio del colpo di pistola a far partire il dramma. Perché è proprio la natura di quella ferita, di quella vertigine, che lo spettacolo andrà ad indagare.
Il drago cui si riferisce il titolo è il protagonista stesso: Francesco, un giovane naziskin che si dimena in slanci violenti e in un feroce sarcasmo per costruirsi una maschera di uomo dominatore; una maschera che tuttavia non serve a coprire la fragilità di un ragazzo incapace di gestire i continui fallimenti, un uomo umiliato dalla vita, e vittima per questo di attacchi di panico che lo hanno portato a scivolare sempre più in basso, in un mondo che non concede alcuna debolezza.
A fare da controparte una donna che non teme di mostrare la propria natura di vittima sventurata: zingara zoppa ed epilettica, moglie maltrattata e sottomessa, non sa che accettare passivamente le situazioni che la vita le impone.
Non hanno nulla di eroico i due personaggi tratteggiati da Mortelliti, e nessuna virtù che li elevi al di sopra della propria miseria: sono anzi il ritratto dell’ignoranza e della pochezza cui l’Italia di oggi sembra condannata. Eppure proprio questa loro umanità così ridotta suscita nello spettatore una certa tenerezza.
Dal loro incontro/scontro nascerà la consapevolezza della vacuità dei pregiudizi su cui spingono certe ideologie, quella razzista in particolare, ma soprattutto si scoprirà che certe realtà che ci appaiono lontane (quella di chi è intollerante e quella di chi subisce l’emarginazione) possono trovare punti di contatto proprio nelle loro mancanze, nei loro limiti.
A partire dal matrimonio, del tutto asentimentale, di cui è vittima la donna rom, non poi così tanto diverso dalla vita coniugale sperimentata dal ragazzo, dove si trascina con una donna capace solo di insulti rabbiosi a causa di una gravidanza non cercata.
Allo stesso modo il mondo del lavoro e della stabilità economica risulta per entrambi un miraggio, una vetta irraggiungibile. Mentre i gruppi aggregativi cui entrambi si sono affidati al prezzo della propria identità e della propria dimensione individuale dimostrano in ambedue i casi un volto cinico, spietato e distaccato dalle esigenze intime di ciascuno. Lui, abbandonato sanguinante proprio da chi lo ha portato ad esporsi al rischio; lei, dimenticata da chi dovrebbe essere la sua famiglia.
Alla luce di questa consapevolezza le maschere grottesche che i due protagonisti indossano, quella del naziskin violento e quella della storpia mendicante, fanno meno paura, perché non sono le maschere di chi davvero può schiacciare o ricattare moralmente l’altro, ma di chi al contrario è già stato schiacciato e langue aspettando la fine. La ferita d’arma da fuoco con cui l’uomo deve fare i conti per tutta la durata del dramma assume quindi un significato metaforico.
Michele Riondino e Alessandra Mortelliti scelgono un soggetto civilmente impegnato, ricco di spunti di riflessione e fortemente attuale. Il testo, tuttavia, pur muovendosi con intelligenza attraverso temi complicati, indugia forse troppo su dettagli realistici non sempre necessari, tardando nello sviluppo delle tante potenzialità messe in campo, e concedendo poco spazio al vero fulcro d’interesse dello spettatore: l’unione delle due solitudini e la nascita di un sentimento di compassione reciproco.
Per quanto riguarda la regia, sostenuta da un buon apparato scenotecnico, Riondino sceglie un registro fortemente naturalistico, ben condotto e capace di tollerare molti tempi morti in nome del realismo cercato, concedendosi tuttavia anche brevi momenti di linguaggio un po’ più sperimentale, talvolta molto efficace, in special modo quando spiega l’antefatto (lui spogliato man mano del ruolo di padre di famiglia e ridotto a uomo solo e ferito, lei privata inesorabilmente del sogno di fare il chirurgo), altrove poco utile nell’approfondire il dramma.
A sostenere lo spettacolo sono comunque soprattutto le interpretazioni attorali. Michele Riondino inscena con credibilità la sua lotta con il dolore fisico, rendendo al contempo la minacciosa aggressività del suo naziskin, quanto la profonda frustrazione di uomo umiliato e abbandonato, evitando allo spettacolo la caduta nel patetismo.
La vertigine del drago
testo: Alessandra Mortelliti
regia: Michele Riondino
con Michele Riondino e Alessandra Mortelliti
scenografia e costumi: Biagio Fersini
disegno luci: Luigi Biondi
produzione: Artisti Riuniti in associazione con Palomar e in collaborazione con 15 Lune Produzioni
durata: 1h 10′
applausi del pubblico: 2′ 10”
Visto a Milano, Teatro Sala Fontana, il 20 febbraio 2014