
Eduardo si starà rivoltando nella tomba! Bastano pochi minuti per far insorgere un primo gruppetto di ‘tradizionalisti’.
Il sipario si è infatti aperto da pochi minuti mostrando, al posto del finto interno più o meno sgarrupato dei Cupiello, una scena disadorna, privata anche delle quinte, e con gli attori (12 anziché i 16 dell’originale) schierati in riga.
Lo sdegno del nostro gruppetto di spettatori è rivolto alla colossale stella cometa che lentamente cala alle spalle degli interpreti, fino a toccare terra: una rigogliosa stella di crisantemi gialli che dà l’idea di un festone ipertrofico, sconfinato dal presepe soprammobile sull’intera scena.
E’ questa, lo vedremo in seguito, una delle idee cardine di questo “Natale in casa Cupiello” che, lo sveliamo subito, ci pone di fronte a un lavoro importante, rivoluzionario ma allo stesso tempo fedele; uno spettacolo, con buona pace del gruppetto, di Eduardo e su Eduardo.
Antonio Latella, nel trentennale dalla morte di Eduardo, è andato a scavare alle radici del testo per riallestirne gli emblemi e riannodare, a suo modo, la sostanza emotiva dell’opera con la presenza e la poetica dell’autore. Si tratta di costruire un mondo Cupiello sugli stessi materiali, e di entrare con decisione nel protagonista della tragicommedia del Natale, Luca Cupiello.
Lui, detto Lucariello, è uno dei personaggi più famosi del teatro italiano. Vive in un mondo a parte, crede che la moglie non parli male di lui, che suo figlio sia un briccone recuperabile, che il fratello sia onesto e che sua figlia sia sposata felicemente.
Attorno le cose stanno però diversamente, eppure Lucariello persevera nella sua visione, tutto preso nella costruzione pezzo per pezzo dall’amato presepe, proprio cosmo ideale.
Ma nell’arco di pochi giorni la realtà circostante si imporrà, Luca Lucarié scoprirà le magagne della sua famiglia e tutto gli crollerà addosso rovinosamente. Per arrivare ad un terzo atto, dopo un testardo delirio in cui persevera nelle proprie convinzioni, in cui morirà.
La figura di Luca Cupiello è stata paragonata a quella di altri celebri disadattati, assorbiti in pittoresche manie che ne segnano la distanza incolmabile dalla normalità, figure comiche e tragiche.
Eduardo aveva creato il suo Don Chisciotte da tinello nel 1931, in un atto unico (il secondo attuale) aggiungendovi in seguito un atto d’introduzione e, ancora dopo, un epilogo che darà all’opera la sua forma definitiva.
Con questo lavoro Eduardo perseguiva l’elevazione del teatro in lingua a teatro d’arte, passando dal teatro locale a quello di valenza universale, integrandovi alcune delle istanze del ‘900, come l’incomunicabilità tra l’individuo e il mondo all’interno di un lingua e di un teatro radicato nella tradizione partenopea della commedia dell’arte, della rivista, del vaudeville: una maniera che Eduardo, figlio di Scarpetta, aveva assorbito insieme al cerone paterno.
Le maschere di Eduardo acquisiscono così il distacco necessario a far vedere il filo che le lega all’attore; sotto le trovate, sotto le fantasie, la risata fa largo all’amarezza di un riconoscimento.
Eduardo era interprete e autore, demiurgo presente in carne e ossa. Latella e il suo gruppo di lavoro fanno sì che il Natale di Eduardo si trasformi in un luogo di sintesi capace di assorbire ed esprimere, oltre alla vicenda, i legami con il retroterra culturale.
Ne risulta un ulteriore distacco, un’opera, come una glossa artistica, che mette insieme opera ed esegesi dell’opera.
Per tutti e tre gli atti di questo “Natale” assistiamo alla costruzione del presepe da parte di Luca Cupiello, siamo nella sua mente, quella di un Cupiello-Eduardo che fa il segno di scrivere nell’aria con la mano: la figura realizzata del demiurgo.
Sin dall’inizio è l’unico ad occhi aperti, mentre gli altri personaggi entreranno di volta in volta nel ruolo togliendosi la benda nera dal viso come uscendo dal buio dell’incoscienza (citazione pirandelliana oltre che dell’entrata in scena di Luca Cupiello, che si libera il viso da scialli e scialletti usati nella notte per “pigliare calimma”).
I personaggi si animano come statuite conservate nella carta da pacchi e prendono vita sfuggendo alla mano che scrive nell’aria (la mano dell’artefice che fa ‘o presebbio, una realtà parallela, un’opera d’arte: Cupiello che fa il suo presepe, Eduardo che fa il suo teatro) con sempre più affanno.
Nel secondo atto, con il banchetto della vigilia in procinto, i personaggi-statuine si caricano dei fardelli votivi, animali-pupazzo che si legano agli attori come appendici mollicce. Ecco quindi il grottesco corteo dei pastori con sulle spalle agnelli, polli, cammelli (le cavalcature dei Magi): animali offerti al dio della tavola.
Nel terzo atto il portiere Raffaele calerà dall’alto, come la cometa dell’inizio, imbracato con tanto di ali posticce, a recar novelle di ogni sorta (è il portiere: sa tutto di tutti!), ma anche angelo del caffè, col ristoro di tazze fumanti alla veglia di Lucariello. Il Cupiello morente, disposto nella mangiatoia foderata di pecora, ha alle spalle la moglie Concetta, nei panni della vergine addolorata, ma nessun San Giuseppe.
Lui, Cupiello, che doveva essere pater familias, è scivolato nella culla, la regressione è compiuta e così l’immagine di una sacra famiglia vacante, di un presepe finalmente ultimato ma senza centro, aggiornato al dramma contemporaneo: lo stesso che Lucariello non aveva voluto riconoscere, scegliendosi la parte del bambinello nato e subito morto (come un Cristo diminuito che muore senza aver fatto l’esperienza del male, con la consapevolezza che se il mondo là fuori è così, meglio restarsene in culla il più possibile a farsi illusioni, e infine in culla morirci).
Se nel testo di Eduardo il parallelo tra il presepe e casa Cupiello si realizzava a tratti come nella famosa mascherata dei Re Magi, Latella spinge fino in fondo la metafora e la arricchisce di significati e interpretazioni. Cupiello è in definitiva il bambinello, è il protagonista dell’intero presepe, e tutti si stringono intorno a lui, che invece di nascere muore. Un colpo emblematico che tramuta questo Natale in un funerale, in una festa di morte. Cosicché, quando tutto è compiuto, il presepe con il vecchio nudo e delirante viene mostrato al pubblico, e la domanda che Cupiello ripete (“Tommasì, te piace ‘o presebbio?”) ci investe con una forza rinnovata.
La situazione di Cupiello si svela in tutta la sua dolorosa realtà: i rapporti all’interno della famiglia, la sua concezione del mondo, il fallimento come guida.
S’intravedeva già nella chiosa originale una sacra famiglia invertita; Latella ha fatto germinare quella seminatura per poi andare oltre, con la morte in scena di Cupiello, che Eduardo aveva suggerito nel referto senza speranza del dottore. Qui Tommasino si alza e finisce il padre soffocandolo con il guanciale e rendendo ancora più drammatico quest’epilogo, come a dire che tra padre e figlio non c’è continuità, le generazioni dimenticano quelle passate (o ne hanno una qualche estrema pietà vedendole agonizzare?): questo Cristo che se ne va s’è sacrificato solo per sé; non fonderà religioni, non toglierà i peccati.
Ecco allora che possono entrare il bue e l’asinello, in carne e ossa, condotti accanto alla mangiatoia per rifinire ‘O presebbio.
E veniamo al De Filippo incarnato in Cupiello, al lavoro di autore e interprete rievocato nello spettacolo.
Nella mente di Cupiello risuona quella di Eduardo. La dramaturg Linda Dalisi sceglie di integrare nella recitazione le minuziose didascalie di Eduardo, vengono dichiarati e drammatizzati perfino gli accenti (“o’ ccafè, accento acuto, non è cosa per te”) con grande resa ritmica.
La soluzione sottolinea i passaggi dall’italiano al dialetto riducendo l’azione, soprattutto nel primo atto, a brevi ed efficaci interventi degli attori, come nel caso del linguaggio mimico tra la madre Concetta e il figlio Tommasino (il “telegrafo senza fili”).
Nel secondo atto si sente a intermittenza la voce dello stesso Eduardo che giunge da fuori, come la voce di un deus con i personaggi che si fermano straniti e l’ascoltano. Una punteggiatura ricorrente che aggiunge uno strato al testo e si fonde alla partitura latelliana. Una partitura ammaliante, con brillanti variazioni di ritmo che esaltano la “parlata” e la carica comica di certi passaggi – come lo svenimento di Concetta nel primo atto o la lite silenziata tra Pasqualino e Tommasino nell’atto finale.
L’atto della costruzione teatrale si assimila a quello del presepio, di un Eduardo che scrive e di un Cupiello che costruisce.
La recitazione degli attori segue un flusso musicale; come ci ha abituato, Latella cura i tempi dello spettacolo come fosse un concerto, un recitativo, e anche qui le allusioni e le citazioni fioccano.
Lo scossone rossiniano della cena nel secondo atto è un temporale in piena regola, in cui i personaggi-statuine vanno in confusione insieme ai loro pupazzi animali, e un Cupiello stremato prova a tenerli in piedi nell’ultimo tentativo di difendersi dall’agnizione dolorosa, la liaison fedifraga tra sua figlia e Vittorio Elia.
C’è di nuovo Rossini anche nel terzo atto, dove il delirio di Cupiello detta l’ingresso di un medico-contralto (Maurizio Rippa) che come Don Basilio canta l’aria della calunnia in un ambiente scuro di lutto e caffeina. Anche qui, le atmosfere ottocentesche, le battute cantate, ricolorano il tema portante della veglia al morituro pescando alle fonti della tragicommedia.
La regia di Latella si configura come una vera e propria partitura musicale: è questa la qualità decisiva della sua messa in scena, che in questo “Natale” va di pari passo alle composizioni di Franco Visioli, congegnate come tappeti sonori per il recitativo degli attori.
La scenografia (di Simone Mannino e Simona D’Amico) è pensata per grandi oggetti-quadro, uno per ogni atto: la cometa del primo, la carrozza del secondo, la culla-mangiatoia del terzo dominano la scena svuotata e catalizzano le azioni degli attori. In particolare la carrozza si fa oggetto del discorso, spazio-dinamico e funzionale: dapprima fardello di Donna Concetta, poi casa allestita per il pranzo, infine carro funebre.
Gli interpreti: un cast di prim’ordine, sperimentato nei precedenti lavori del regista e ben calibrato nei caratteri dell’opera. Attori poliedrici come Francesco Manenti, interprete di Luca Cupiello, Monica Piseddu, una Concetta secca e intensa, com’è svagata e effimera Valentina Vacca nei panni della figlia Ninuccia. Irresistibili e in parte sono Michelangelo Dalisi nel ruolo di Pasqualino, fratello di Luca, e Lino Musella, nel ruolo del figlio Tommasino.
Protagonista aggiunto è Eduardo de Filippo e il suo testo che, dall’inizio alla fine, snudato e messo in luce da Latella, dimostra ancora e meglio il suo vigore.
Così come “Natale in casa Cupiello” si faceva interprete di una revisione del teatro con il teatro, Latella ne fa oggi teatro del teatro, raggiungendo un nuovo equilibrio tra la buona tradizione e la carica innovativa più feconda.
Natale in casa Cupiello
produzione: Teatro di Roma
di Eduardo De Filippo
regia: Antonio Latella
Personaggi e interpreti
Luca Cupiello, Francesco Manetti
Concetta, sua moglie, Monica Piseddu
Tommasino, loro figlio, detto Nennillo, Lino Musella
Ninuccia, la figlia, Valentina Vacca
Nicola, suo marito, Francesco Villano
Pasqualino, fratello di Luca, Michelangelo Dalisi
Raffaele, portiere, Leandro Amato
Vittorio Elia, Giuseppe Lanino
Il dottore, Maurizio Rippa
Carmela, Annibale Pavone
Rita, Emilio Vacca
Maria, Alessandra Borgia
Drammaturga del progetto: Linda Dalisi
Scene: Simone Mannino e Simona D’Amico
Costumi: Fabio Sonnino
Musiche: Franco Visioli
Luci: Simone De Angelis
Assistenti alla regia: Brunella Giolivo, Michele Mele
Assistente volontaria: Irene Di Lelio
durata: 2h 40’ più intervallo
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 1° gennaio 2015
Prima nazionale