Il liberarsi della skené dalle sue connotazioni concettuali, potenzialmente divisorie, per restituire allo spazio un valore architettonico neutro, nuovamente riempibile dalla “funzione teatro”, inclusiva e affatto escludente, è ciò che di più incisivo può rivelare e trasmettere la messa in scena quando l’apparato simbolico del teatro e il suo linguaggio (estetico) si trasformano in strumenti, mezzi di dispiegamento del Vero, sia esso filtrato dall’essenzialità della parola semplice oppure dal reticolato segnico più allegorico.
Esito di un workshop che ha coinvolto abitanti del quartiere Vallette di Torino, in “Né Più né Meno”, quarto appuntamento della stagione artetransitiva#14 a cura di Stalker Teatro, Riccardo Caporossi, volto storico del teatro di ricerca italiano e fondatore con lo scomparso Claudio Remondi della compagnia Rem&Cap nei primissimi anni Settanta, è riuscito proprio in questo, ed oserei dire a pari merito con i suoi non-attori, protagonisti e narratori di questo raro spettacolo realista, come è stato sapientemente definito da Gigi Livio, docente di Letteratura e Spettacolo Teatrale presso l’Università del Piemonte Orientale.
“Né Più né Meno” è infatti il risultato di un percorso di ri-appropriazione più che di avvicinamento al teatro, che ha coinvolto, sotto la guida di Caporossi, una ventina di anziani del quartiere popolare delle Vallette.
Termine prevalentemente sociale, “anziano” è un concetto labile, fluido, tematizzato sulla scena, ma non tematico: l’eredità biografica ed il “che farsene” ne sono il motore argomentativo.
I protagonisti-narratori (performer, si definiranno loro stessi a fine spettacolo) entrano snocciolandosi su ritmi morbidi in gestualità quotidiane, attraversando un corridoio a strisce pedonali sul fondo della scena: è un corale di movimenti semplici, di entrate e uscite, ombrelli, borse della spesa, sguardi, crocchi affiatati in parole non udibili.
Gli oggetti si trasformano nel passaggio del testimone della presenza scenica: è l’apertura del sipario in uno spazio senza tende, la preparazione del pubblico alla temporalità sospensiva della narrazione.
Poi, lentamente, il turbinio urbano si trasforma nell’intimismo del ricordo, in un tango ballato sulle note di Oblivion di Astor Piazzolla ed interrotto dall’ingresso del regista (immagine evocativa di Kantor aggirarsi tra i banchi de “La Classe Morta”) a distribuire calici che, ad uno ad uno, verranno riempiti di vino rosso. Assaporandolo, ognuno darà la sua opinione: corposo, robusto, ben invecchiato, aromatico oppure insipido, troppo giovane, dal sapore debole, finché una voce solitaria, distaccandosi dal coro, lo definirà semplicemente normale: “Né più né meno”, come la vita, irriducibile per complessità a categorie di giudizio. E’ il primo momento in cui l’atto del dire diventa rilevante e s’interrompe una narrazione che fa leva più sulla semplicità e l’immediatezza coreografica che non sull’azione verbale.
La scenografia è minima, essenziale e muta sulla scena per mano degli attori: le strisce pedonali si trasformano nel perimetro di una sala da ballo, poi in una spirale-arena sulla quale si disporranno seduti nel quadro finale.
Caporossi, una laurea in architettura, sa che non è l’abbondanza della materia a dispiegare le forze strutturali di un impianto spaziale e definisce, infatti quell’unica linea bianca è elemento sufficiente a sottolineare, per metafora geometrica, le forze centrifughe e centripete generate dalla narrazione: tutti si fanno portatori di un aneddoto del loro vissuto, un aneddoto vero, liberamente attinto dalla memoria. E srotolando un gomitolo di lana creano una raggiera di fili sull’intrecciarsi delle loro parole. Un bambino, accovacciato in silenzio nel punto d’origine (o di fine) della spirale, li raccoglie in ascolto in un unico gomitolo, matassa densa di testimonianza.
E’ rilevante sottolineare come l’incontro-dibattito che ha seguito lo spettacolo, come da tradizione di Stalker Teatro, guidato dal direttore artistico Gabriele Boccaccini e presenti Caporossi e Gigi Livio, si sia rivelato essenziale e in qualche modo indissolubile dall’impianto processuale di quel fare teatro e diventare teatro alla base della poetica di “Né più né meno”.
Chiave di volta di una ri-approprazione spaziale denotata dal mescolarsi dei non-attori/performer tra il pubblico, e rivelatrice dell’immediatezza di uno spettacolo-coreografia dell’ esistente (participio presente), la discussione ha toccato l’esperienza diretta dei partecipanti (quelli ex, presenti come spettatori, e quelli ex-novo) e ha messo in luce quanto l’esperienza laboratoriale che ha preceduto la messa in scena abbia dato vita ad un gruppo di lavoro autodeterminante e consapevole, nota di merito da riconoscere pienamente a Riccardo Caporossi: solo chi è umile sa farsi maestro, e l’umiltà, si sa, è virtù rara (o, per usare parole di Rem&Cap, “Né orizzontale, né obliquo, né seduto, né verticale”, ma individuo-motore).
Caporossi torna quindi a fare e difendere il teatro pubblico, il teatro politico, il teatro senza personalismi, senza ruoli cristallizzati o gerarchie, e lo fa con l’umiltà di chi non si pretende avaguardia ma riesce ancora – nonostante il tempo intercorso – in qualche modo ad esserlo, attraverso un processo di sensibilizzazione basato sulla trasmissione del sapere dal basso che, se rende l’individuo consapevole, l’ha reso libero.
Né più né meno
progetto e regia: Riccardo Caporossi
con: Balsamo Annamaria, Bertin Roberto, Bonanate Laura, Bosso Bruna, Breuza Ivana, Brunazzi Marco, Brunod Clara, Calligaris Anna Maria, Costantino Attilio, Cuccia Antonina, Danielis Claudia, Ghirlanda Enzo, Giacomini Alfredo, Gusberti Miriam, Mangino Irene, Monchietto Chiara, Montaruol Roberto, Rossati Annarosa, Schillaci Vittoria, Valentini Luigi
con la partecipazione di: Ivan Prazzoli e Orlando Bosco, Adriana Rinaldi
allestimento, luci, suoni: Dario Prazzoli, Andrea Sancio Sangiorgi
durata: 57′
applausi del pubblico: 2′ 40”
Visto a Torino, Officine Caos, il 29 marzo 2014