
Un ruolo importante nella diffusione del lavoro di Crouch lo hanno avuto senz’altro Fabrizio Arcuri e la sua Accademia degli Artefatti, che negli anni scorsi hanno adattato e portato in scena un esperimento estremo come “An oak tree” e il monologo “My arm“.
Grazie a Trend 2013 assistiamo al nuovo passo dell’incontro fra gli Artefatti e Crouch: “Peaseblossom”, atto unico che appartiene ad “I, Shakespeare”, una raccolta di quattro monologhi in cui altrettanti personaggi shakespeariani vengono sfruttati dall’autore britannico sia per presentare al pubblico, con attenzione filologica, testi celebri da angoli prospettici inediti, sia per scatenare come al solito la forza dei suoi giochi drammaturgici.
“Peaseblossom”, cioè Fior di Pisello, è uno dei personaggi minori del “Sogno di una notte di mezza estate”: più precisamente è uno dei servi magici di Titania; secondo il testo di Crouch in tutto il Sogno gli spetta una sola, insignificante battuta (in realtà le battute totali sono quattro, anche se altrettanto insignificanti).
Proprio partendo da questo status minoritario, Crouch getta i suoi semi drammaturgici: opacizza il personaggio, tratteggiando una sofferenza e un sentimento di esclusione che vengono confessati solo a mezza bocca, nel codice ambiguo dell’ironia; ma sfrutta questa minorità anche per dare al suo Peaseblossom un profilo infantile, che ha le basi proprio nel broncio malcelato per la scarsa partecipazione al gioco teatrale shakesperiano, per poi manifestarsi esplicitamente nel timore con cui gli occhi del suo personaggio guardano al dispiegarsi della sessualità fra le quattro coppie al centro del Sogno.
Arcuri affida questo ruolo complicato a Matteo Angius, che troviamo già in scena quando entriamo in sala, steso a terra nel bel mezzo di una farragine di cartacce e coriandoli. Il tavolo al centro evoca il banchetto di nozze di Teseo e Ippolita, Lisandro ed Ermia, Elena e Demetrio: Peaceblossom si sveglia, chiede ad Arcuri (che fa da tecnico in scena e da spalla) che ore sono, comincia a ripetere come una nenia “mi sa che sono un po’ stanco”, un lamento che – oltre a fare da fil rouge drammaturgico – lascia presagire allo spettatore i meccanismi onirici con cui si dovrà essere pronti a giocare.
Mentre capiamo per l’ennesima volta che la quarta parete per Tim Crouch non esiste, Angius scende in platea e comincia a “benedirci” con la sua improvvisata bacchetta magica. Segue e commenta il copione, che tiene in mano quasi per tutta la durata del monologo. Un copione che descrive il sogno che ci sta raccontando.
La recitazione di Angius, colloquiale, quasi smozzicata, riesce a simulare molto bene lo sviluppo casuale del discorso, come se davvero Peaseblossom stesse leggendo per la prima volta quel racconto, che in realtà somiglia terribilmente ad una messa in scena. E infatti Angius diventa in breve tempo regista del pubblico, assegnando i ruoli, dando comandi, passando il copione di mano: si sogna insieme ciò che nella diegesi è già accaduto.
Come nel suo precedente “The Author” (visto a Trend 2011), Crouch predispone uno sviluppo dello spettacolo inclusivo e improvvisato, affidandolo quindi in gran parte alla destrezza degli interpreti e alla mutevolezza del contesto. Non c’è dubbio, infatti, che il pubblico italiano possa reagire ad una sollecitazione del genere in modo ben diverso dal pubblico internazionale del Fringe. Tuttavia, diversamente da quanto accadeva con “The Author”, dove il tentativo (in quel caso del Teatro dei Borgia) era sembrato francamente goffo, Matteo Angius riesce a tessere il dialogo fin da subito, grazie a una presenza scenica mai visibilmente affettata e ad un certo ‘mood’ positivo che molto deve anche ai brevi ma efficaci interventi di Arcuri.
Diretti da Peaseblossom, ripercorriamo così gli snodi principali del Sogno shakespeariano. Siamo lontani da qualsiasi rischio didascalico, perché i piani paralleli del testo originale sono resi asimmetrici e rivisitati da Crouch (la messa in scena di Piramo e Tisbe, ad esempio, non è affidata agli spettatori ma mimata da una giostra giocattolo); in particolare, vengono amplificate le azioni da cui può scaturire un maggior effetto nel coinvolgimento del pubblico. È il caso della magia di cui è vittima Bottom, il cui volto non si trasforma (come in Shakespeare) nella testa di un asino, ma in una più specifica parte del corpo di un asino, che molto ha a che vedere con il cognome del personaggio. Da questa piccola modifica Angius può così trarre diverse gag ad effetto.
La qualità del testo di Crouch e dell’operazione degli Artefatti sta senz’altro nella possibilità di proporre il “Sogno di una notte di mezza estate” a pubblici eterogenei e anche non assidui del teatro, calcando allo stesso tempo quella linea tragicomica di cui Peaseblossom è il fulcro e che dà al testo autonoma originalità, senza limitarlo ad una riformulazione interattiva dell’originale: il sistema di scatole cinesi e di sogni dentro ai sogni è fra l’altro ben più complesso e studiato di quanto abbiamo potuto fin qui spiegare.
Allo stesso tempo, però, proprio i dedali della struttura narrativa e le strategie con cui si affida l’azione drammatica al pubblico ci appaiono troppo fini a sé stessi; senz’altro sapienti e ben congegnati per il funzionamento della macchina scenica, ma non sempre capaci di ricondurre il coinvolgimento degli spettatori a una dimensione più ampia.
Peaseblossom
di: Tim Crouch
regia: Fabrizio Arcuri
compagnia: Accademia degli Artefatti
con: Matteo Angius
traduzione: Pieraldo Girotto
applausi: 1’ 40’’
durata: 1h 15’
Visto a Roma, Teatro Belli, il 9 aprile 2013