Dal 2007 porta avanti una personale ricerca coreografica, presentando le sue creazioni in diversi festival, in Italia e all’estero.
Per Interplay 2013, al suo debutto ieri sera in un pienissimo Teatro Astra di Torino, Daniele Ninarello sarà in scena questo sabato, 25 maggio, per i blitz metropolitani con “God bless you” (in piazza Vittorio Veneto alle ore 17.30), mentre il 18 e 19 giugno, a chiusura del festival, mostrerà l’esito della residenza Clash Shared Choreographic Residency insieme a Yuko Kominam e Stephan Herwig.
Con Daniele, in una giornata di maggio stranamente fredda e umida, mi appresto ad un facile e salutare esercizio: ricordare.
Dopo più di dieci anni di amicizia, ci troviamo finalmente attorno ad un tavolo a testimoniare, col nostro semplice esercizio, che le vere interviste sono tali quando si fanno in due. E così, mentre apriamo l’ormai corposo libro di tutti questi anni, ci guardiamo col sottile imbarazzo che viene dalla consapevolezza di stare lavorando, per la prima volta insieme, sulla cosa più importante: ricordare, “ripassare al cuore”, a quel piccolo centro che gli antichi credevano fosse il centro della memoria.
Daniele ha iniziato a danzare tardi, come lui stesso ricorda, più o meno quando io e lui ci siamo conosciuti, oltre una decina di mondi fa. Da allora molte cose sono cambiate, tranne il fatto, e questo ci rassicura, che entrambi continuiamo a fare o scrivere di teatro e danza, con lo stesso spirito di allora, e con la stessa tenacia. Quindi, quando ormai si fa sera e gli chiedo di lasciarmi una parola, a suggello di tutto ciò che ci siamo detti mentre fuori pioveva, lui dice istintivamente “cuore” e poi cerca di impedirmi di scriverlo. Ma io lo lascio ben impresso sulla pagina, quel suo “cuore”. Questo è l’unico torto che posso permettermi di fare a un amico, proteggere la sua libertà di esprimersi credendo nel suo coraggio e nell’autenticità di un cuore che danza, senza spiegare niente, raccontando una storia piccola ma preziosa, per altri cuori che lo ascolteranno, e sicuramente per il mio.
Sei partito da Torino e qui sei tornato, in pianta quasi stabile. Evidentemente ci sono cose da fare per un giovane coreografo… Insomma, hai praticamente girato il mondo e poi sei ritornato a casa, immagino con molte cose da dire.
Faccio spesso progetti e residenze all’estero, ma Torino è la città che ho scelto per vivere. Sì, a Torino c’è molto fermento, ed è la citta dove ho iniziato il mio percorso creativo da autore con il sostegno di alcune realtà locali come La Piattaforma, Artemovimento e Mosaico Danza, quindi è chiaro che qui ritrovo molti legami lavorativi. Mi sento a casa. E poi oggi i miei progetti sono sostenuti da TorinoDanza, Teatro Stabile, Unione Musicale, Lavanderia a Vapore e Palcoscenico Danza.
Ripensando al passato, cosa diresti al te stesso di qualche anno fa che ancora non sapeva che la danza sarebbe diventata il suo lavoro?
Qualche anno fa seguivo il seme dell’urgenza di creare. Lo facevo perché per me era come respirare, e in effetti è il motivo per cui lo faccio ancora oggi. Solo che ora, in qualche modo, ho responsabilità maggiori; resta da capire quali siano le responsabilità di un artista… Insomma, cosa direi al me stesso di una volta? Beh’, lo ringrazierei.
Com’è proporre il proprio lavoro all’estero e in Italia? Dove sei stato accolto meglio e dove torneresti?
Fare spettacolo in Italia o all’estero non fa differenza. L’unica cosa è forse il modo in cui il pubblico, a seconda di dove ti trovi, reagisce a ciò che vede. Ho trovato molto calore qui in Italia, ma ancor di più in Francia e in Canada. Lì, quando ho presentato “Bianconido” e “Non(leg)azioni”, pubblico e operatori erano interessati non solo al linguaggio che proponevo, ma soprattutto mi hanno dato un riscontro umano ed artistico insieme. Anche in Italia sta accadendo: il mio lavoro non punta soltanto al pensiero, ma anche al cuore, all’intelligenza del cuore delle persone. Mi sento attratto da questa direzione, perché fondamentalmente noi non sappiamo bene che cosa passa nella mente delle persone…
Qualcuno ha detto che nell’arte ci sono “grandi cervelli” e “pochi grandi cuori”: questa cosa mi ha colpito molto; mi interessa che i miei spettacoli arrivino a un livello epidermico, carnale, senza cercare a tutti costi di capire, senza imporre all’artista di trasformare il movimento in pensiero.
Ti ho visto lavorare in produzioni altrui, per esempio sono molto legata al lavoro che hai fatto con Sieni per “La natura delle cose”. Ora invece stai avviando un lavoro da coreografo: hai sempre uno sguardo esterno, una guida? E quando hai capito che potevi essere tu la guida di qualcun altro?
Credo sia molto importante lavorare con uno sguardo esterno e un dramaturg. Prima di iniziare a lavorare guidando altre persone ho creato cinque assoli, ho lavorato molto e a fondo da solo. Nella mia esperienza, guidare gli altri non significa dire loro cosa fare ma è una questione di trasmissione, e per farlo devi avere davvero digerito tutto quello di cui stai parlando, altrimenti rischi di non essere compreso. Ho passato alcuni anni a lavorare da solo in sala, fino all’esasperazione. Ora esiste un progetto di compagnia, che risponde al mio nome, attorno al quale gravitano diversi collaboratori: attualmente lavoro con due danzatrici. Abbiamo di recente vinto il bando Teatri del Tempo Presente, promosso da Mibac, Regione Piemonte e Fondazione Piemonte dal vivo.
Sei anche un insegnante. Cosa significa insegnare la danza? Tu sei stato allievo (un tempo eri un danzatore classico): che lezione hai imparato dai tuoi maestri e come la rimetti in gioco ora che sei tu a insegnare?
Mi è stato affidato un corso al master del Balletto Teatro di Torino e uno a Belfiore Danza e poi tengo seminari. Non sono un maestro, mi piace piuttosto l’idea di portare la mia esperienza di movimento. Non mi rifaccio a un metodo, non insegno tecniche e in fondo anche la parola “insegnante” non è che mi piaccia molto. Quello che dico sempre ai miei allievi, soprattutto ai giovani, è di scegliere bene la propria strada. Qualsiasi percorso artistico va di pari passo con una crescita personale; la cosa importante è avere il coraggio di essere autentici. Il corpo si muove non per capriccio ma per un bisogno, ed è dunque a questa urgenza di movimento che bisogna prestare attenzione, qui e ora. Ci sono ottimi metodi, tecniche… e io penso che tutti i metodi siano qualcosa da apprendere, approfondire con serietà e poi dimenticare.
C’è un tema, anche solo una parola o un’immagine, che ti porti dietro in ogni produzione?
Sicuramente il magnetismo è una cosa su cui lavoro molto. Per me è importante lavorare con l’idea di essere un magnete: il corpo è un magnete, lo spazio è un magnete. Mi interessa molto il fatto che il magnete ha in sé l’attrazione e la repulsione, e quindi questo fa sì che il tuo corpo…
È un corpo sempre presente…
Sì, esatto, è qualcosa che viaggia da dentro a fuori e da fuori a dentro, è difficile parlare di questa cosa. Ogni volta che lavoro sull’improvvisazione cerco di ritrovarmi in quello che vivo costantemente, di trovarmi qui e ora, non in modo autistico ma attento agli stimoli esterni.
Parlami dei blitz di Interplay. Tu proporrai sabato “God bless you”, performance nata per la strada.
È una performance nata grazie al progetto Mercati Comuni col sostegno di TpE e Mosaico Danza. L’ho già portato a Genova, a Marsiglia… sempre in piazza. Era un lavoro a tema: l’acqua e la fontana. È stato commissionato e presentato in piazze con una fontana dopo aver fatto una ricerca molto approfondita sul simbolo della fontana nel passato. Ho pensato ai turisti e alle monetine che gettano nelle più belle fontane del nostro Paese, e poi sono andato a guardare cos’era nell’antichità il pozzo e alla fine sempre di questo si tratta: un posto in cui l’uomo chiede la benevolenza degli dei. Nel tempo, l’uomo ha affidato a qualcun altro i propri desideri. Ho pensato che doveva essere un lavoro proprio per chi è in strada, ma veramente in strada. Quindi mi sono ricordato dei barboni, e del cartello che spesso tengono in mano: God bless you. Una benedizione in cambio di una moneta. Allora ho costruito tante piccole fontane con i bicchieri di plastica pieni di acqua, piccole fontane dove si possono gettare le monete. Ho lavorato su una ricerca del movimento a partire dall’idea di un corpo che sta in strada, un corpo che non mangia… un corpo disorientato. Questo è “God bless you”.
A ben vedere questa idea della fontana che custodisce i desideri risponde un po’ anche a un’idea di danza come contenitore immaginario di aspettative e speranze, e dell’arte in genere come luogo dove gettare la propria intima moneta…
Sì, son successe molte cose, anche gente commossa. Io mi avvicino alle persone e danzo chiedendo una moneta… si può leggere in molti modi, ci sono tante direzioni… Comunque la ricerca del movimento parte da questa idea di corpo disorientato. È stato molto forte quando l’ho proposto a Marsiglia, in questa piazza molto popolata da barboni. C’erano duecento persone attorno a me ed io ero in mezzo ai barboni. Mi sono alzato e ho cominciato a danzare. Alla fine dello spettacolo, che dura solo quindici minuti, distruggo l’illusione, i desideri, tutti quei bicchieri pieni d’acqua.
Qual è l’esperienza più significativa, nel tuo iter performativo, dal punto di vista umano e artistico?
Tutto il percorso è importante. Sono stato fortunato perché sono sempre stato esposto a una difficoltà, che è la difficoltà di tutti, per carità. Quando mi dicevano che non potevo diventare un danzatore, questo per me era un motore. Ringrazierei le persone che non hanno creduto in me, nel senso buono, e non perché mi sono incaponito per provare qualcosa a qualcuno. Era semplicemente un’esigenza. Devo ringraziare anche chi mi ha sostenuto, e chi ancora mi sostiene in questo percorso e promuove la circolazione del mio lavoro. E grazie anche al mio corpo… che sta sopportando tutto questo [ride].
Prossima avventura?
Domenica parto per il Lussemburgo per il progetto Clash, una residenza condivisa con altri due coreografi. Starò là dieci giorni per realizzare il secondo step, poi a giugno tornerò a Torino, sempre per Interplay, a mostrare il lavoro.
Lasciami una parola come testimone di questo incontro, da scrivere su una lavagnetta immaginaria.
Cuore. Ehm, no, è troppo romantica, no, no, aspetta…