
E comunque il festival di teatro più altisonante della regione, giunto alla tredicesima edizione, è finalmente partito. Nella consueta location del Protoconvento Francescano di Castrovillari, ai piedi del Pollino. I ragazzi di Scena Verticale hanno dovuto dare conto in qualche intervista sulla terra che balla (si veda: terremoto). Ma a dare una scossa, ci penseranno i movimenti avvertiti da palco a platea, c’è da starne certi.
E di vibrazioni se ne sono avvertite nella prima giornata di spettacoli, il primo novembre, giorno di tutti i Santi (da queste parti il fervore religioso è endemico).

Una bella trovata quella della compagnia ravennate di dare incarnato alle perle di retorica e demagogia dei più importanti “attori” del nostro paese. Figurati da un eccellente Marco Cavalcoli in un’ora piena di monologo-spettacolo, nelle sembianze di un modello “Presidente” in crisi di identità multiple le cui corde vocali partoriscono le voci dei più noti artefici del politichese nazional-popolare (Berlusca, Bersani, Grillo, Monti, Di Pietro, La Russa, Renzi, Casini). Accessoriati con longa manus (delle manone in lattice) in alcune scene, guanti bianchi da massone in altre, giacca e cravatta scuri da “iena” e una cuffia con immancabile microfono (simbolo maximo del potere.) Nel mutismo degli ultimi dieci minuti di scena, con Cavalcoli sguardo fisso in proscenio verso la platea, levata una gigantesca maschera di gommapiuma del Silvio nazionale, l’emblema dello spettacolo. Uno scambio di sguardi sgomento, increduli ma consapevolmente rassegnati, scambio invisibile, silente, dello schifarsi sottocutaneo d’una coscienza collettiva in minoranza fuori dallo spirito del gregge. Lo spettacolo perde di smalto dopo mezz’ora, però.
Una prima nazionale in seconda serata: “Hi Mummy_Frutto del ventre tuo

Piacevole ma non convincente. Estetico, formale, dove la sostanza sì, arriva, e fa riflettere, ma subisce l’invadenza della cura al visivo. Iconografico, sdoganato (e di tendenza) il nudo in scena. Attuale, in era di mammoni (per necessità o pigrizia) e smarrimento identitario. Quasi una risposta all’interrogativo della diffusa spersonalizzazione, da cercare in complessi edipici. Senza scomodare Freud, ma rappresentando situazioni, schematizzate, dallo specchiato androgino, pop, e dal gusto un po’ surrogato.
Buona la prova di Maurizio Sguotti (nel ruolo della mater) e dei figliocci Alberto Costa, Vittorio Gerosa, Alex Nesti, Tommaso Bianco. Da apprezzare, il succedersi di scene, nello scambio generazionale di professionalità recitativa. Come un passaggio di testimone che inquadra il tramandarsi dell’arte scenica, dal maturo al più giovane. Apprezzabile, ancora, la sensazione del dover crittografare, tradurre testo e immagini ricche di allusione e simbolismo.
Sorrisi e lazzi nel dopo festival, novità di questa edizione. Atmosfera d’altri tempi, un po’ kitsch, un po’ da centro sociale, giocata tra “l’Osteria di primavera” e la “Sartoria”, tra un bicchiere di vino, caldarroste e ‘carrubbe’. Ma questa è un’altra storia, da svelare prossimamente.