Requiem per il Kosovo. Domenico Castaldo presenta una Piccola guerra perfetta

Domenico Castaldo in Piccola Guerra Perfetta|Domenico Castaldo in Piccola Guerra Perfetta|Katia Capatp in Piccola Guerra Perfetta
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Domenico Castaldo in Piccola Guerra Perfetta
Domenico Castaldo in Piccola Guerra Perfetta (photo: Giorgio Sottile)
Bastano 78 giorni di bombardamenti a provocare la morte di 13 mila civili e di qualche migliaia di combattenti per ciascuno schieramento. Cifre impressionanti, a cui potremmo aggiungere, a contorno di una tragedia di natura etnica, 20 mila donne stuprate e 850 mila rifugiati fuggiti dalle proprie case.

E’ un Paese piccolo il Kosovo, grande quanto l’Abruzzo, di cui forse ricordiamo ancora in maniera abbastanza nitida le immagini di guerra, soprattutto di quegli aerei Nato che partivano dall’Italia.
Il nemico dichiarato era Slobodan Milošević e la sua folle pulizia etnica contro tutto quanto fosse albanese.
Era la primavera del 1999, e sembra già lontana.

Quella che fu impropiamente definita una “piccola guerra perfetta” è oggi resa in scena da Domenico Castaldo e dal suo LabPerm attraverso un articolato lavoro sul testo a partire dal romanzo di Elvira Dones (“Piccola guerra perfetta”, Einaudi, 2011), giornalista albanese che durante il conflitto viveva in Svizzera ma che, a scontro terminato, decide di raccontare quella che ha definito (non senza polemiche) “la nostra guerra”, tornando in Kosovo per documentarsi e testimoniare l’orrore dei Balcani. 

Domenico Castaldo, ormai torinese d’adozione, accetta la sfida di un racconto il cui cast, se si esclude lui stesso, è al femminile; una messa in scena fortemente caratterizzata dal lavoro di gruppo su corpo e voce, impronta che, come ci racconterà, porta avanti ormai da anni con il suo Laboratorio permanente di ricerca sull’arte dell’attore.
“Piccola guerra perfetta”, in scena a Torino fino al 14 aprile, è una prova che lo vede contemporaneamente autore, attore e regista, circondato dalla bella scenografia – semplice ma efficace – di Lucio Diana, che si sviluppa di lunghe pedane verticali dai molteplici scopi.

Il giorno dopo il debutto abbiamo chiesto a Castaldo di raccontarci qualcosa di più su una delle produzioni di questa stagione dello Stabile che, insieme a “Educazione Siberiana” di Nicolai Lilin, fa parte di Teatro di Guerra, seminario interdisciplinare sul conflitto armato e le sue rappresentazioni, che la Fondazione Tst sta sviluppando insieme all’università.

Katia Capatp in Piccola Guerra Perfetta
In primo piano Katia Capato (photo: Giorgio Sottile)
Cominciamo dal passato. Dopo la Scuola del Teatro Stabile di Torino, diretta allora da Luca Ronconi, c’è stato il Workcenter di Jerzy Grotowski e Thomas Richards a Pontedera. Cosa hai tratto da queste diverse esperienze formative?
Due input importanti: il primo arriva dal teatro classico italiano, quello dello Stabile e di Ronconi, che mi ha dato la capacità di lettura e di interpretazione dei testi. Nella seconda esperienza il campo di fronte a cui mi sono trovato era vastissimo: il lavoro sulle azioni fisiche, sul corpo, sulla vibrazione e la vibrabilità del corpo, il lavoro sul gruppo e quindi sull’insieme, tutti elementi che il teatro italiano ha perso e che bisognerebbe riconquistare.

Nel ’96 crei il LabPerm, Laboratorio permanente di ricerca sull’arte dell’attore, che si caratterizza proprio sul lavoro corale e sull’andamento armonico di voce e corpo.
Sì, l’esperienza formativa maggiore sta proprio qui, tra il ’97 e oggi, dove nel Laboratorio di Ricerca ho continuato a studiare i due input iniziali. Il nostro lavoro va nella direzione del singolo e dell’insieme come fucina di immaginazione e creatività.  

Fai anche parte del Rosso Rustico Amaro Trio, un ulteriore approccio alla musica…
Il Trio e il nuovo progetto delle Figurelle sono due possibilità del lavoro legato alla musica, che si manifesta anche attraverso una sorta di teatro-canzone, riprendendo l’aspetto goliarghico e più giocoso dell’uso della voce e delle possibilità attorali.
Accanto a questo, c’è poi il lavoro molto specifico sull’uso del canto e della melodia nel corpo dell’individuo e nell’insieme. Questo è un lavoro costante: nelle nostre giornate al LabPerm si dedicano almeno 2 o 3 ore al canto. Nei nostri progetti, quindi, il mio ruolo, oltre a quello di attore, diventa anche di “direttore d’orchestra”, suggerendo i tempi e i ritmi di questa partitura invisibile.

Teatro di guerra. Perché hai scelto proprio il testo di Elvira Dones per parlare di nazionalismi, insofferenze etniche e conflitti?
Lo Stabile di Torino mi ha proposto il testo [che era piaciuto molto a Mario Martone, ndr] esprimendo il desiderio di metterlo in scena per la Biennale Democrazia che si aprirà tra poco.
Io ho accettato innnanzitutto perché credo sia importante, per un artista, trovare delle forme dialogiche con le istituzioni, come parti diverse della società che si occupano dello stesso settore, nella speranza che diventino vere collaborazioni e non relazioni di dipendenza in cui l’istituzione si serve dell’artista e lui continua a star lì, agonizzante.
Il secondo motivo è che per me e le mie colleghe si trattava di un lavoro interessante per cercare di risvegliare una sorta di etica da esprimere sia attraverso la drammaturgia che la messa in scena.

Domenico Castaldo in Piccola Guerra Perfetta
Tutti i protagonisti di Piccola Guerra Perfetta (photo: Giorgio Sottile)

Sul finale dello spettacolo trai una sorta di morale per ampliare il discorso sugli orrori che ci circondano, e non solo sulle atrocità che accaddero in Kosovo. Qual è l’imbonimento (è questa la parola che utilizzi nello spettacolo) che l’Italia sta vivendo e da cui dovrebbe guardarsi?

Oggi ho una sincera paura dell’uso della parola ‘guerra’ e dell’abuso, nel nostro lessico e nei nostri pensieri, dell’idea che la soluzione violenta possa risolvere conflitti o disagi. E ritengo che noi, nel nostro linguaggio, ne siamo pieni. Non so quanto di questi discorsi siano indotti o siano propri dell’individuo, ma in fondo poco importa.

E allora, citandoti ancora, “Che si fa”?

La cosa fondamentale che la cultura deve fare – nonostante sia una lotta molto strenua – è dare la possibilità di un pensiero alternativo, anziché indurre a pensare che una soluzione violenta sia la risposta ai problemi.
Il compito di chi fa cultura, di fronte all’alternativa lo ammazzo o non lo ammazzo, è di proporre una terza strada, quella della convivenza. Lo sforzo starà allora in come si potrà convivere. La cultura ha l’obbligo di cercare queste modalità.     
 
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