
Torniamo oggi, per tutta la giornata, alla XXVIII edizione di VolterraTeatro per un’ultima riflessione su quest’edizione, che verrà poi chiusa, nel pomeriggio, da due photogallery realizzate dal nostro Guido Mencari.
Un filo rosso per unire il carcere e la città, ripercorrere i contorni di una ferita fisica e morale che invade la terra e colpisce l’anima di attori, spettatori e abitanti di Volterra.
Perché le performance che, a fine luglio, hanno animato strade, piazze, palazzi della cittadina toscana e gli spazi del carcere/fortezza sono state occasioni di condivisione in nome di arte e bellezza e riflessione sul tema della ferita.
In questa estate sempre ricca di rassegne che, da nord a sud, piccoli o grandi che siano, dimostrano comunque vitalità e resistenza proponendo un’offerta culturale ampia e variegata, torniamo oggi nella cittadina toscana per chiudere il cerchio sull’estate dei festival e ricordare alcuni degli eventi che l’hanno caratterizzata, all’insegna di un incontro e di uno scambio volti a cancellare la mera distinzione tra “attori” e “spettatori”, rendendo tutti protagonisti.
Non solo “Santo Genet”, di cui già abbiamo parlato, spettacolo della Compagnia della Fortezza, regia di Armando Punzo, che ha rappresentato anche quest’anno un’occasione unica per trasformare uno spazio di costrizione, il carcere, in un luogo dove le emozioni si trasferiscono con disarmante immediatezza su spettatori attenti e partecipi grazie alla forza comunicativa di uno spettacolo capace di enfatizzare segni, sguardi, narrazioni; ma anche altre immagini del festival, tasselli densi ed emozionanti.
Partiamo così dal rosso, il colore di un nastro di raso che ha avvolto palazzi, percorso strade arrivando sino nel cuore della città ferita, circa venti chilometri, per riannodare memoria e ricordi di una terra violata dalla furia della natura che fa scoprire limiti e rende vane le difese.
Se la ferita, sin dall’inizio del festival, ne ha rappresentato il filo conduttore, l’azione collettiva “La Ferita/Logos – Rapsodia per Volterra”, progetto di Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni di Archivio Zeta – compagnia famosa in particolar modo per i suoi allestimenti di tragedie greche negli enormi spazi aperti del Cimitero Germanico della Futa – ha permesso all’intera città di ritrovarsi, fare i conti con le fragilità del corpo e dello spirito, e ripartire, unita e compatta nel desiderio di andare oltre proprio a quella ferita che lacera ma non cancella speranza e poesia.
Momenti performativi, partiture musicali e frammenti testuali. Una processione dai ritmi ora lenti ora più concitati, un’azione corale partita dal carcere, scandita dal rumore delle pietre bianche a piazza dei Priori, il cui candore si opponeva al rosso dei fili abilmente intrecciati da bambini ed adulti, attori ed abitanti di Volterra, percorsa dai passi svelti che hanno condotto sino a piazza dei Fornelli, proprio nel cuore della ferita, lì dove ancora sanguina.
E poi, sempre di corsa, ritrovarsi ad ammirare le rovine dell’antico teatro romano, simbolo di un passato capace di non esser solo memoria ma stimolo per ripartire.
All’azione corale è stata affiancata un’azione urbana il “Walk Show” di Carlo Infante, ideatore di Urban Experience, progettista culturale e docente free lance di performing media, che ha dato vita ad una conversazione itinerante con critici e addetti ai lavori, spettatori e abitanti di Volterra, attraverso l’uso di cuffie e smarthphone, un racconto e una riflessione parallele all’agire degli attori sulla scena en plein air. Fare della città e del carcere un grande palcoscenico dove teatro, arti visive, musica si palesino trasformando pubblico e performer nei protagonisti di una grande opera d’arte.
Tra gli eventi a cui abbiamo assistito non è stato difficile cogliere l’essenza di questo pensiero, con cui il festival è stato architettato. Le mura alte e imponenti della Fortezza non sono state solo palco ma anche spazio di dialogo ed approfondimento su temi come “Artista, comunità e memoria, dialoghi sulla Ferita”, a cura di Bianca Tosatti, occasione per discutere attorno alla necessità di “conservare” arte e bellezza nonostante le ferite della quotidianità e del tempo. Ed ha ospitato anche la cerimonia di consegna dei premi dell’Associazione nazionale critici di teatro e l’incontro dei rappresentanti dei blog e delle testate online aderenti a Rete Critica.
Relazione, partecipazione, scambio si realizzavano poi durante l’appuntamento serale con gli sposi Stefano Pasquini e Paola Borselli. Il loro “Sul tetto del mondo, nozze d’argento con le Ariette”, insieme a Maurizio Ferraresi, Stefano Massari, Irene Bartolini, riempiva il cortile dell’istituto Niccolini di sapori e profumi oltre che di ricordi e parole di una vita insieme.
Semplicità e leggerezza emergono dal loro fare teatro che giorno dopo giorno diventa occasione per scambiare esperienze di vita. Una grande festa per i venticinque anni di matrimonio di una coppia che ha deciso di vivere di teatro ma anche dei frutti di un’azienda agricola in Emilia Romagna.
Chiudiamo allora questo “ritorno a Volterra”, che riporta solo alcuni dei tanti momenti vissuti nella cittadina toscana, con le immagini di un’arte che riannoda le fila di un discorso sul gesto e sull’immagine, grazie al gruppo Teatri 35 col progetto “Il panno acotonato dello inferno” una performance di Tableaux Vivants ispirati ai quadri di Rosso Fiorentino e Pontormo, svoltasi alla Pinacoteca Civica di Volterra, un progetto speciale dedicato al dipinto della Deposizione di Rosso Fiorentino, accompagnata da una sessione di live sketching dei disegnatori di Urban Sketchers con i partecipanti al workshop di disegno dal vivo, “Drawing on stage in Tuscany”, condotto da Simonetta Capecchi. Artisti capaci di fermare su un foglio, con poche righe di matita, anche le emozioni di marinai, schiavi, servi, protagonisti di “Santo Genet”.