Synecdoche New York. Il cinema s’ispira al teatro (con figura retorica)

Synecdoche New York|Synecdoche New York
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Synecdoche New York
Philip Seymour Hoffman, morto per overdose a febbraio, in Synecdoche New York
Esce oggi nelle sale italiane “Synecdoche New York”, opera prima di Charlie Kaufman, sceneggiatore di film di culto come “Being John Malkovich” e “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” (Premio Oscar 2005).
Perché KLP ve lo racconta? Perché il film, che arriva finalmente nelle sale dopo una lunga battaglia legale che ne ha impedito la distribuzione in Italia al momento della sua uscita (2008), ha molto a che fare col teatro.

Il protagonista, Caden Cotard, interpretato dal compianto Philip Seymour Hoffman (il più grande attore del terzo millennio), è un regista teatrale in crisi.
Non gli bastano infatti i successi di critica e pubblico del suo ultimo spettacolo in un teatro di periferia a Schenectady (stato di New York), nel momento in cui la sua vita si sta sgretolando.
La moglie lo lascia e se ne va a Berlino con la figlia, i suoi problemi di salute si acuiscono, e la psicanalista invece di aiutarlo gli vuole solo vendere il suo best seller.

Complice un premio che gli porta una sostanziosa vittoria in dollari, decide di investire i soldi per trasferirsi a Manhattan, affittare un capannone e mettere in scena un’opera di inesorabile integrità, riunendo un gruppo di attori e dirigendoli in una celebrazione della banalità dell’esistenza, chiedendo a ciascuno di vivere una vita artificiale in una serie di luoghi ricostruiti.

Mentre le sue condizioni mentali, sentimentali e fisiche peggiorano sempre più, la sua opera diventa l’infinita opera della sua vita; i personaggi dello spettacolo sostituiscono quelli reali, e il film diventa un complicato meccanismo meta teatrale.
Solo dal dolore, solo dall’angoscia può emergere la vera arte, quella che non accetta compromessi e scuote sia chi la realizza che chi l’osserva: è questo il messaggio che emerge con forza dal film, grazie anche alla trasformazione del rapporto tra Caden e il suo mestiere. Il regista infatti, prima molto attento alle recensioni (“Quando escono i giornali con le critiche?” chiede al mattino presto dopo il party per il debutto del suo spettacolo in provincia), svolterà verso un impegno artistico totalmente militante e non commerciale (“Sono 17 anni che proviamo!” si lamentano gli attori del suo kolossal).
E non è un caso che due giganti del teatro di ricerca come Artaud e Grotowski vengano citati…

Complice un cast stellare (Hoffman è affiancato da otto attrici per altrettanti ruoli molto interessanti: Samantha Morton, Catherine Keener, Michelle Williams, Emily Watson, Dianne Wiest, Jennifer Jason Leigh e Hope Davis), lo spettatore si perde tra le vicende che coinvolgono Caden e le donne con cui ha a che fare mentre l’avanzare della messa in scena stenta a vedere la fine.

Synecdoche New York
Il set di Synecdoche New York
“Synecdoche New York” è un film complesso e affascinante. I suoi infiniti incastri narrativi e scenici si possono ben spiegare con questo aneddoto: Mary Cybulski, che ha curato la supervisione della sceneggiatura, ha ideato un grafico per chiarire la struttura ramificata e la proliferazione della storia: “Ci sono delle scene che si svolgono nel vero magazzino – spiega – Poi c’è il set dell’esterno del magazzino, che i personaggi hanno costruito all’interno del magazzino, e poi ci sono le scene che avvengono sul set della strada, che si trova all’interno del set del magazzino, ma fuori dal secondo set del magazzino. E così via”. Modello matrioska.
 
Perdendosi nei dettagli, nelle interpretazioni (non sempre logiche) e nelle ramificazioni delle storie, il film cerca di avvicinare il cinema alla vita reale attraverso il teatro. Per riuscirci è necessario che lo spettatore – a una prima visione – perda qualche pezzo. “È intenzionale – precisa Kaufman – Voglio che quando uno vede il film un’altra volta lo trovi diverso e non ripetitivo”.  
Ed è sempre lui, Kaufman, a spiegare come abbia cercato di cogliere il dinamismo che a suo parere caratterizza il teatro mentre manca al cinema: “Uno spettacolo è un’opera che vive, a ogni replica le interazioni tra gli attori sono diverse e l’energia del pubblico modifica la loro interpretazione – afferma – Un film è privo di vita e immutabile, quindi cosa si può fare per renderlo più palpitante? La mia scelta è fare film che consentano al pubblico di scoprire cose nuove a seguito di molteplici visioni. Il mio obiettivo è far sentire che un film è un oggetto vivente e non inanimato”.

Il risultato è sorprendente: la pellicola crea nello spettatore un susseguirsi di dubbi, emozioni, riferimenti alla vita reale (e, certo, una serie di riflessioni riguardo al mondo del teatro).
Il produttore, Anthony Bregman, non dimenticherà mai la sua prima lettura della sceneggiatura: “È stata una lettura impegnativa e quando l’ho affrontata mi sono ritrovato in una specie di trance. Molte cose erano complicate e bizzarre, ma al tempo stesso molto personali. Verso la fine ho avuto la sensazione che la storia parlasse di eventi della mia stessa vita”.

Per chi si fosse incuriosito di un film che fin dal titolo tira in ballo la sineddoche (e che negli States ha diviso la critica)… da oggi lo troverà nelle sale!
 

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