Intercettandolo fra le sue tante date in giro per l’Italia e l’Europa abbiamo intervistato Alessandro Serra diTeatropersona per approfondire alcuni aspetti degli ultimi lavori e per parlare dei progetti futuri.
Ne è venuta fuori un’intervista approfondita sulla sua poetica, sul fare teatro e su vari aspetti che hanno caratterizzato e caratterizzano i suoi lavori più recenti. Ma anche spunti di riflessione – e qualche bacchettata – sul teatro contemporaneo e il suo pubblico.
Partiamo dal nuovo lavoro che stai facendo su Alberto Giacometti, il cui primo studio “L’ombra della sera”, è andato in scena a San Gimignano quest’estate. Rispetto alla “Trilogia del silenzio” stavolta non ti sei lasciato ispirare da uno scrittore ma da un artista figurativo…
Alberto Giacometti è un artista che amo moltissimo e mi commuove profondamente. È un autore che mi corrisponde molto e che mi ha accompagnato per molti anni; avevo già letto i suoi scritti, è stato anche una fonte di ispirazione nel mio lavoro… Ha trascorso tutta la vita tormentato, a cercare di rifare una faccia, copiare un volto, non la convenzione di un volto, ma la sua magia imperscrutabile… è un po’ come nel mio lavoro, quando all’inizio, nei primi tentativi che facevo in direzione della Trilogia mi si accusava di eludere la vita, di allontanarmi dalla verità, da questa energia pulsante per andare verso un’altra estetica, astratta, ma era esattamente vero il contrario.
Adoro Beckett e Giacometti perché sono pieni di umanità, dolore, vita… non sto parlando della rappresentazione della vita, dell’empatia, parlo proprio della vita vivente che si fa materia. Giacometti sosteneva di non riuscire veramente a vedere una testa finché non si metteva a rifarla materialmente. Questa è una delle cose che ho imparato da lui: fare teatro come lo faccio è il mio modo di vedere la vita, rifare la vita per proteggerla e imparare a vederla meglio…
Ma credo sia stato anche l’incontro con Chiara (Michelini, ndr) che mi ha influenzato: ho pensato che forse lei sarebbe riuscita a far danzare quell’immobilità.
Come concili l’essenzialità di Giacometti, il suo muoversi per “tratti”, con il lavoro che fai? Può un “segno” far germogliare una drammaturgia, una scenografia, una partitura gestuale?
Ci sono due lavori paralleli: il primo è un lavoro molto difficile che stiamo cercando di fare assieme a Chiara ed è cercare le varie qualità della danza in relazione allo spazio e al tempo; la danza dell’incedere, del camminare che si rifà a “L’homme qui marche”, analizzata in uno spazio smisurato, aperto ma al contempo docile a ogni impulso. Poi la danza dell’immobilità, seduti (femme assise) e in piedi (femme debout), entrambe analizzate in uno spazio chiuso, quello dell’atelier o del bordello.
Ci siamo ispirati anche ad altre opere di Giacometti come la “Femme égorgée” (donna sgozzata) e “L’homme qui chavire”, che oscilla, messo in relazione con lo spazio del ‘palais à quatre heures’. Per ognuna abbiamo trovato un corrispettivo frammento di umanità da raccontare, che non vuole essere una ricostruzione della sua vita o del suo lavoro. Il tentativo è dare corpo a quei volti, a quei corpi e a quel dolore che tanto fortemente emerge dalle sue opere. Queste figure filiformi, dee, angeli, alieni venuti dal passato altro non sono che prostitute. Solitudini che camminano su un marciapiede, al di là di una strada, a Montparnasse. La luce dei lampioni ne proietta in terra le ombre desolate, l’ombra della sera è l’ombra di una solitudine, un luogo, una ferita in cui andarsi a rifugiare… Ciò che voglio sottolineare è la sua capacità di ritrarre la vita – come Beckett, Cechov – ed è quello che mi commuove nel profondo. Questa “vita”, che al contempo è la drammaturgia, l’opera delle azioni, l’umanità, cerchiamo di raccontarla in qualche modo dando corpo alle tre donne fondamentali della sua vita: la moglie Annette, la prostituta Caroline e la madre Annetta.
Anche in questo lavoro ci si muove in assenza di dialoghi?
Sì, con una sola danzatrice in scena.
Torniamo ad Aure: penso sia una sorta di “compimento asciugato” della Trilogia. In “Beckett box” c’era un’abbondanza di oggetti, quasi uno spazio sovraccarico, nel “Trattato dei manichini” c’era una gestualità molto presente e a tratti volutamente ridondante, mentre in “Aure” è manifesta una volontà di togliere, di asciugare, come se tu avessi lavorato per sottrazione fino ad arrivare ad uno straordinario equilibrio d’insieme…
Sì, penso che “Aure” sia il mio spettacolo più maturo dal punto di vista della regia e direi il migliore degli études, intendo il termine étude un po’ alla Chopin, creare degli esercizi, imporsi dei limiti, ricercare… Tuttavia la Trilogia è stata per me anche un pretesto per insegnare a me stesso ciò che ancora non conoscevo, per andare più a fondo, per togliere soprattutto gli indizi contestuali, tutta quella parte dell’emozione che ha a che fare con la conoscenza e quindi con il concettuale: questa è stata per me un’operazione difficile, dolorosa e faticosa. È difficile lavorare con gli attori in questi frangenti, perché chiedi loro uno sforzo sovrumano: creare e sostenere il vuoto. Inoltre non è detto che ci sia un pubblico di addetti ai lavori pronti a sostenerlo, perché il pubblico “normale” l’ha sempre sostenuto… la “Trilogia del silenzio” è un’opera popolare.
Ossia?
La cosa che mi ha stupito di tutti e tre i lavori è stata la commozione di fronte a un pubblico, diciamo così, tradizionale… e in Italia sai quanto è difficile. Ci sono i festival estivi in cui si presenta il lavoro a un pubblico di addetti ai lavori e di colleghi, e poi d’inverno si va a teatro a vedere le solite recite, oppure la televisione dal vivo o peggio, qualche volta, il “contemporaneo”. E senti la gente dire, cito testualmente, ma perché si vestono male? (quando si vestono), perché sempre felpe con cappuccio e scarpe da ginnastica? Ma soprattutto: perché non sanno recitare? Perché non sanno danzare? In Italia ci sono davvero artisti di talento, spesso osannati nei festival e che non riescono a incontrare un pubblico che, ne sono certo, ancora li sta aspettando.
C’è un legame tra Hammershøi (a cui ti sei ispirato per la scenografia di Aure) e Giacometti o hai fatto una sorta di “salto”?
Non credo che ci sia un legame. Direi che Giacometti è più universale, Hammershøi è per pochi, è un ‘kammerspiel’, una cosa piccola, il che non significa togliergli valore; ma Giacometti sta nell’archetipo, è “etrusco”, è veramente antico, è prima dell’arte, e così capisce che le più grandi forme d’arte sono quelle che precedono il periodo in cui è stata inventata l’“arte”, quando l’opera veniva creata non per rappresentare ma per agire.
Parliamo un po’ del teatro ragazzi. Hai moltissime date del tuo ultimo lavoro “Il grande viaggio”…
Ragazzi è una parola che non mi piace: ragazzo deriva dall’arabo e significa fattorino… un teatro per i fattorini? Forse per i messaggeri! Allora sì, ma quali messaggi portano i bambini dall’altra sfera? Cosa sanno? Cos’hanno visto? Dal momento in cui imparano a parlare purtroppo l’hanno già dimenticato. L’arte forse potrebbe aiutarci a ricordare. Sai questa fossetta che abbiamo sotto il naso? Secondo una tradizione talmudica sarebbe l’impronta dell’indice che l’angelo ci ha premuto sulle labbra per sigillarle. Da quel momento in poi dimentichiamo. “Il grande viaggio” parla anche di questa connessione con l’altra sfera, c’è a un certo punto un incontro con il daimon, l’angelo. Forse parlare all’infanzia potrebbe essere una via possibile per non fare atrofizzare del tutto quell’organo misterioso che possiedono i bambini e che Cristina Campodefiniva di presagio e corrispondenza.
Massimo Castri diceva che non c’è il teatro ragazzi e il teatro per adulti, c’è il teatro bello e il teatro brutto.
Esatto. Da parte mia c’è un desiderio di parlare all’infanzia… mi riferisco soprattutto al sogno di Bruno Schulz di maturare verso l’infanzia. Per me è molto più faticoso fare uno spettacolo per bambini che uno come “Aure” proprio perché mi pongo il problema di parlare all’infanzia; inoltre mi piace molto la tipologia di spettatori che incontro in queste messinscene: le famiglie. Ma ne parlava già Benjamin prima e meglio di me. Mi riferisco al fatto che a un certo punto un manipolo di adulti abbia deciso che debba esistere una letteratura per bambini, una musica per bambini e, ahimé, un teatro per bambini…
Hai in cantiere altri progetti del genere in futuro?
C’è un progetto davvero molto bello con la compagnia di Antonio Viganò (Teatro La Ribalta), una compagnia di attori disabili. Ho iniziato a lavorare con loro attraverso piccoli incontri, atelier, workshop… la risposta è davvero sorprendente e non mi riferisco ai loro corpi e alle loro voci poetiche, il che sarebbe come dire… scontato? E si rischierebbe di cadere in uno sguardo di natura compassionevole. No, ciò che sorprende è proprio il loro mestiere, il loro senso della scena, l’ironia. È chiaro che stiamo parlando di una compagnia di professionisti. Antonio mi ha chiesto di lavorare con loro, un grande attestato di stima; inizieremo a lavorare a gennaio e non so bene dove arriveremo. Non è escluso che l’opera possa essere presentata a un pubblico di bambini.
E tu che teatro vai a vedere? Cos’hai visto di interessante ultimamente?
Mah, guardo alcune mostruosità contemporanee su Youtube… A volte vado anche a verificare dal vivo e mi prende uno sconforto tale, non tanto per me, io sono un regista, scrivo, creo immagini. Lo scandalo è la scomparsa dell’attore! Aggravata dal fatto che ci sono, esistono, i bravi attori! Per la danza il discorso è analogo: fingono di non saper danzare proprio perché in realtà sanno di non saperlo fare! Oppure c’è questa mania della danza super atletica, non saprei come altro definirla, ginnica? Ma la danza non è muoversi o fingere di non saperlo fare, la danza è ricerca dell’immobilità. Bisogna far danzare l’aria e le retine e i cuori e le anime e i neuroni specchio di chi guarda… Ad ogni modo negli ultimi anni, quando posso, cerco di andare a vedere gli attori, più che gli spettacoli.
Sbilanciati. Facci qualche nome.
Ho visto un lavoro che mi ha commosso fino alle lacrime, “Memoria” di Else Marie Laukvik, attrice dell’Odin Teatret. Semplicemente un’attrice di 70 anni seduta che parla, ed è di una potenza sovrumana. E’ lì che bisogna andare, perché il teatro può fare a meno di tutto tranne che dell’attore. Le sue ultime parole, sussurrate con un filo di voce e noi tutti a creare un silenzio, quasi un’apnea per accogliere quel canto… Un’altra cosa che ho visto di recente è il solo di Antonella Bertoni, “Try”, splendida!
E in futuro vedrai?
Quest’inverno voglio vedere alcune cose, Leonardo Capuano e Gaetano Ventriglia ad esempio… soprattutto artisti lontani da me, almeno apparentemente, forme sceniche che non frequento ma che amo profondamente, come il teatro di figura. Ho visto un foglio di carta prendere anima in un soffio, buste di plastica danzare in cerchio… Oppure andare a vedere sempre lo stesso spettacolo che è una pratica quasi dionisiaca; mi riferisco alle opere di Danio Manfredini, al suo capolavoro: Danio Manfredini.
Quali sono gli autori a cui guardi fuori dal teatro?
Come scrittori anzitutto i russi: Dostoevskij, Cechov, Pasternak… Poi Proust, la “Recherche” potrebbe essere per me ciò che per Beckett era la “Commedia” di Dante, un’opera da portarsi appresso tipo breviario… Poi certamente Céline e Robert Walser. Negli ultimi anni leggo sempre meno romanzi. Simone Weil, Elémire Zolla, Maria Zambrano, Pavel Florenskij…
Per la pittura è un po’ difficile: Hammershøi è un pittore minore? Turner? Che senso ha l’impressionismo dopo Turner? Ma soprattutto quanti impressionisti ci vogliono per fare un Turner? Amo le icone: Leonardo, la luce diRembrandt… ma soprattutto l’arte antica, diciamo fino ai greci. A un certo punto l’arte ha iniziato a voler significare, a fare smorfie, a cercare l’empatia, a dimenarsi; poi finalmente è arrivato il cinema. Sui registi di cinema soprassiederei, troppi grandi! Ne dico solo due: il più grande, Chaplin, e quello a me più caro, Bergman. In teatro però faccio tre nomi: Kantor anzitutto, Pina Bausch, Carmelo Bene.
Tornando alla Trilogia, c’è sempre questa atmosfera chiaroscurale, notturna, semiilluminata, da camerata di collegio. E’ un retaggio autobiografico, vista la tua esperienza passata?
È possibile che sia vero quello che dici, non ci ho mai pensato direttamente. A me interessano fondamentalmente i momenti di passaggio. Non a caso negli ultimi tempi sto lavorando molto con gli attori sulla respirazione e sull’immobilità. Ci sono tre fasi della respirazione: inspirazione, espirazione e apnea. Nessuno lavora su quest’ultima, mentre secondo me è il momento più prezioso… in ogni scuola di teatro ti insegnano che non devi mai stare in apnea, “devi” essere un flusso continuo; in realtà è un momento prezioso: è l’anticamera della preghiera, è il momento in cui puoi ascoltare il tuo battito cardiaco, anche in sintonia con quello dei compagni in scena.
Ultimamente sento che sto andando verso queste fasi di passaggio, tra luce e oscurità: è una metafora del respiro, dell’ascolto assoluto, ma anche un fatto di luce. Il momento più prezioso della giornata, ad esempio, è il momento blu, quello dopo il tramonto, quando si crea quel blu che c’è per pochissimi minuti, il crepuscolo. Sono attimi in cui si sospende qualcosa, che è anche una metafora dell’istante prima di morire. Possono essere anche dei momenti peccaminosi, in cui ci si concede certe libertà, si smettono le attività ipocrite del quotidiano.
In collegio c’erano dei nascondigli, posti dove andavamo a esplorare le nostre sessualità, a raccontarci storie di paura… è proprio in quei momenti lì, quando la suora passava con questo frusciare d’ali nere, per venire a controllare… ma poi volava via, tanto sapeva che ci saremmo confessati.
Nella Trilogia è presente una drammaturgia per immagini, e la cosa che viene più sottolineata quando si parla del tuo teatro è l’assenza di dialoghi. In “Aure” però ci sono risolini, un miscuglio e un’alternanza di suoni e rumori, che pur non essendo linguaggio è come se lo fossero: un momento di dialogo, di condivisione tra i personaggi in scena.
Proust amava i teatrini di marionette, muti, così riposanti per chi ha preso in disgusto la lingua parlata. Nella “Recherche” parlava anche di totale sordità, giacché la perdita d’un senso aggiunge al mondo altrettanta bellezza di quanta ne darebbe il venirne in possesso… terra quasi edenica dove il suono non è stato ancora creato. Nel nostro caso abbiamo smesso di parlare perché ci siamo dedicati ad ascoltare. Per la verità ci siamo resi conto che troppo spesso parlare, dialogare non è altro che un camuffamento: è l’incapacità di ascolto che si fa logorrea.
Quello che sto cercando di fare negli ultimi tempi – soprattutto da quando ho ricominciato a insegnare, che ha significato ricominciare un percorso di ricerca – è proprio lavorare sull’attore e sull’ascolto, perché quello che più mi rattrista quando vado a teatro è certamente questa solitudine e questo “attraversarsi degli attori”, vuoi perché non c’è più l’attitudine, vuoi perché si lavora poco insieme per lo spettacolo, vuoi perché non si lavora da tanti anni insieme.
I grandi capolavori della storia del teatro sono stati fatti da persone che lavoravano assieme da anni.
”Aure” è un paradosso perché ci sono tre solitudini in scena che però sono in strettissima connessione drammaturgica tra di loro. La drammaturgia di “Aure” è molto sottile, quasi invisibile, la più difficile dal mio punto di vista da espletare. Se allo spettatore non fornisci indizi contestuali (chi è lei?, da dove viene?, perché si muove così?) non ha alcun tipo di informazione, e tutto quello che vede si deve concatenare semplicemente con un collante speciale che ha a che vedere con l’aura… Ciò non significa che non ci sia drammaturgia. Lo spettatore si emoziona perché entra in risonanza col corpo dell’attore che compie quell’azione e non perché pensa “oh, poverino, ha reagito così perché ha saputo che suo figlio…”, non ci sono indizi se non quelli relativi a una logica di spazio-azione-tempo. Solo il vuoto creato e sostenuto dall’attore, pronto ad accogliere chi guarda.
I tuoi spettacoli sono molto rappresentati anche all’estero. Cos’è che ti colpisce in questo tuo “peregrinare”?
A me non è che interessi molto… noto solo che in Italia non c’è più un vero pubblico, diciamo che il pubblico teatrale si sta un po’ estinguendo, salvo qualche rara eccezione. È tutto un po’ patetico: ce la suoniamo e ce la cantiamo tra di noi oramai; le uniche occasioni vive che ho incontrato, sia da spettatore che da addetto ai lavori, sono le realtà piccole in cui gli organizzatori, che magari di giorno fanno un altro mestiere, si sbattono tantissimo per portare gente a teatro.
È chiaro che in Germania e in Francia o in Russia la gente “va a teatro”, pagando anche biglietti dal costo elevato: attua una scelta a cui è stata educata… il teatro non è uno svago, ma è considerato un elemento culturale con piena dignità e valore. In Italia non si va più a teatro. Gli operatori, ad esempio, ti dicono che non c’è il pubblico per “Aure” ma laddove abbiamo presentato lo spettacolo con un pubblico “autentico” abbiamo ricevuto sempre riscontri positivi, commossi. Il sistema italiano è strutturato non per far girare l’arte, ma i presunti artisti, in base a criteri che spesso passano dalla convenienza al nepotismo, dall’affiliazione alla logica dello scambio.