Tony Clifton in ‘Missione Roosevelt’

Missione Roosevelt
Missione Roosevelt
La Missione Roosevelt dei Tony Clifton Circus (photo: Sileks)
La “Missione Roosevelt” comincia suonando un citofono: non sarà l’inizio più epico che si possa immaginare, con un titolo così, ma del resto chi ha deciso di partecipare all’ultimo lavoro (impossibile chiamarlo spettacolo, e neppure performance, forse semplicemente teatro: forse!) dei Tony Clifton Circus non dovrebbe avere troppe pulsioni militaresche da sfogare. Si va in cerca, piuttosto, di quel sano cinismo e quell’esplosivo gusto per l’esagerazione con cui i Tony sferzano da sempre il loro pubblico. Ma neanche qui, in realtà, sta il segreto dello strano esperimento di questa Missione.

L’idea è semplice, evidente, spalancata come certe finestre a cui si ha paura di affacciarsi: agli spettatori vengono affidate poche banali azioni da compiere lungo un tragitto urbano, che nel nostro caso si sviluppa attraversando un breve tunnel, un paio di strade molto trafficate, un supermercato, il ponte di Testaccio, concludendosi poi alla Pelanda del Macro, lo spazio canonico di Short Theatre 2012.

Che differenza c’è rispetto a tanto teatro itinerante? Quella non sottile che il percorso va portato a termine spostandosi su una carrozzina, provando a condividere concretamente l’esperienza quotidiana di chi, purtroppo, alla carrozzina è costretto ogni giorno.

I partecipanti, dunque, usciti dall’appartamento da cui comincia la missione, trovano lungo il marciapiede il “mezzo” che è stato loro assegnato. Bisogna familiarizzare subito con movimenti solo all’apparenza semplici: adeguare la postura, spingere i due corrimani al giusto ritmo, aumentare la velocità se c’è da contrastare la pendenza del suolo.
Si scambia qualche battuta coi compagni d’avventura, si scruta incuriositi la reazione dei passanti: non capita tutti i giorni di incontrare una torma di venti carrozzine che, come vedremo, non fa nulla per passare inosservata.

I marciapiedi romani sono notoriamente terra ostile per i disabili: quelli di piazzale della Radio confermano la fama funesta, in un sali e scendi di asfalto riottoso, anche quando s’incontrano gli scivoli fatti teoricamente ad hoc per una carrozzina. Le ruote si bloccano facilmente, serve l’aiuto e la spinta di qualcuno. Già qui succedono le prime cose interessanti: vicino al tunnel di stazione Trastevere un signore in auto si ferma per lasciar passare le carrozzine sulle strisce; quando si stupisce per la lunghezza del corteo, apre lo sportello, scende e comincia a spingerle una ad una fino al marciapiede opposto.
Per chi si ritrova ad essere soccorso la reazione è ambigua: senz’altro c’è gratitudine, ma anche il senso di colpa di chi, finto disabile, sta approfittando della solidarietà altrui. Un’ambiguità che in fondo ha qualcosa di profondamente vero, e quindi fa benissimo: toglie fin da subito alla “Missione Roosevelt” ogni briciolo di moralismo (se mai il rischio ci fosse stato, conoscendone gli ideatori), rendendo la performance non solo un esperimento sulla reazione urbana al malato, ma soprattutto un’esperienza personale – oseremmo dire esistenziale, se solo non suonasse appunto troppo moralista per il contesto – capace di cambiare a lungo la nostra visione di una realtà così difficilmente riconducibile a noi stessi.

Sì, perché la prova corporea, la fatica visibile nelle espressioni di molti, la paura di cadere, il bisogno e allo stesso tempo il senso di colpa per essere aiutati insegnano molto più della complessità di certe estetiche impegnate.
In due ore scarse si assesta un duro colpo all’indifferenza con cui spesso (anche solo per pigrizia) ci si difende, perché il corpo ha la memoria lunga, e i nostri occhi faranno più fatica a relegare le braccia sudate di un disabile a mero fondale urbano, essendo state quelle braccia anche le nostre.

Il cordone delle carrozzine è costretto a dividersi per guadare uno stradone largo e trafficatissimo. Alcuni vigili si offrono di fermare il traffico, qualche passante aiuta chi ha più difficoltà, un ragazzino continua imperterrito la sua camminata veloce. Gli adepti di Roosvelt arrivano alle porte automatiche di un supermercato, dove ognuno di loro – come da protocollo – ha qualcosa di preciso da comprare. Alla cassa si forma una coda lunghissima di ruote: sembra un risciò fuori misura.

Fuori dal supermercato accadono due di quelle coincidenze significative che, se fossimo joyciani, varrebbe la pena di chiamare epifanie. Vicino all’ingresso, una vecchietta dallo sguardo di vetro osserva il vuoto, attaccata al respiratore e stretta anche lei ad una carrozzina: rimane da sola tutto il tempo, senza un movimento, un cenno, senza che in almeno venti minuti chiunque l’abbia parcheggiata lì si faccia vivo.

Nel frattempo Mr e Mrs Roosvelt (Diane Bonnot e Iacopo Fulgi), che accompagnano il gruppo per tutto il percorso, incitandolo e ricordando gli obiettivi, cominciano a cantare un motivetto improvvisato, facendosi lasciare una mancia dalle varie carrozzine. Il tempo di distogliere lo sguardo dalla vecchietta e incrocio quello di una mendicante, occhi azzurri vispissimi di chi conosce il mondo: seduta per terra, il palmo vuoto di spiccioli, indica con un gesto della testa Mr e Mrs Roosvelt e mima la loro musichetta battendo le nocche su un bidone, facendo una smorfia sardonica come per dirmi «lo so fare anch’io, se voglio, sono dei buffoni!».
Due modeste epifanie, giusto per dimostrare quanto sia dura aprirsi davvero all’altro da sé, svincolandosi dalle contraddizioni, perfino quando la grammatica è quella tutt’altro che pacificante dei Tony Clifton Circus.

Il viaggio sgangherato continua in salita, verso il ponte di Testaccio, dove quella della cordata di carrozzine smette di essere una metafora: i partecipanti legano l’uno all’altro i telai, sono costretti a stabilire un ritmo comune nelle spinte, per riuscire ad affrontare senza sbilanciarsi una pendenza lieve solo per chi è abituato ad affrontarla a piedi o in auto.
Superato il ponte, si distribuiscono lungo un curvone e, alzando delle lettere a comporre un messaggio, diventano il miglior segnale stradale vivente: un ammonimento molto esplicito sulle conseguenze di una curva presa con troppa velocità.

Il Macro ora è vicino: per completare la “Missione Roosvelt” manca soltanto la gincana finale; si possono riposare i bicipiti e divertirsi a far scoppiare palloncini con le ruote, senza in realtà nemmeno rilassarsi troppo, visto che al microfono uno dei Tony avverte della presenza di (pseudo) letame esplosivo, il cui slalom è davvero l’ultimo ostacolo da superare.

Ci si rialza dalla carrozzina e la vivacità dei polpacci sembra più piacevole che mai. Chissà se la “Missione Roosevelt” è davvero riuscita; chissà quanto arriva in profondità questa punta grama di risentimento per la facilità con cui – senza motivo – a noi è dato scegliere che vita vivere e ad altri no; chissà per quanto il nostro sguardo sui disabili sarà davvero meno indifferente.
Eppure soltanto in questo chissà, nella forbice del dubbio che resta aperta senza alcun conforto, il teatro può essere davvero sé stesso.

Ai Tony Clifton Circus il merito di avercelo ricordato con mezzi semplici: è con mezzi semplici, d’altronde, che ci si dovrebbe “allenare” all’inclusione piuttosto che all’esclusione dell’altro, ogni giorno, senza smettere di domandarsi se la missione stia avendo successo oppure no.

Missione Roosvelt

un progetto di: Tony Clifton Circus
con: Diane Bonnot e Iacopo Fulgi
direzione tecnica: Enzo Palazzoni e Maja Thommen
direttore di produzione: Francesca Corona – PAV
una produzione: Tony Clifton Circus / Area 06 / 369gradi
in coproduzione con: Lieux Publics – CNC
con il sostegno di: SACD / Auteurs d’espace publique, La Paperie – Centre National des Arts de la Rue d’Angers, L’Atelline – Lieu de Fabrique Arts de la Rue Languedoc-Roussillon
durata: 1h 45′

Vissuto in giro per Roma il 12 settembre 2012
Short Theatre 2012

 

0 replies on “Tony Clifton in ‘Missione Roosevelt’”