Uso umano di esseri umani. Castellucci e la parola biblica

Uso umano di essere umani - Romeo Castellucci

Uso umano di essere umani - Romeo CastellucciTre, la completezza: questo il numero delle zone in cui si suddivide questo “Uso umano di esseri umani”, presentato nell’ambito della rassegna “E la volpe disse al corvo“, a cui si aggiungono i quattro livelli della lingua ‘esercitata’, come recita il sottotitolo – e viene in mente così il sette, il numero della perfezione, della vera vita.

Tutto ciò viene attraversato dall’estrema pulizia e ricercatezza di Romeo Castellucci tramite la parabola biblica che più ha a che fare con la vita e la morte e che compare solo nel Vangelo di Giovanni, ovvero quella della resurrezione di Lazzaro.
Lazzaro è il discepolo perfetto, l’unico dei tre miracolati nei Vangeli chiamato per nome (e il cui nome significa ‘colui che Dio ha aiutato’ e che in qualche modo aiuta Dio nella rivelazione). Lazzaro è quello che il Cristo viene a richiamare alla vita pur essendo egli già in vita – questo l’annunzio della buona novella: Gesù, polemizzando con i Sadducei, afferma che Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E non resuscita i morti, ma comunica ai vivi una qualità di vita che scavalca la morte stessa. Quando in Giovanni egli chiama Lazzaro fuori dal sepolcro, viene scritto: E il ‘morto’ uscì. Non Lazzaro uscì, ma il morto, che resta morto perché di fatto quello è solo il corpo di chi in realtà è nella vita intesa come quel tutto vivente contenuto nell’‘Io sono (la resurrezione e la vita)’ – sottolineando che ‘Io sono’ è il nome di Dio. Gesù va a trovare un vivo, questo è quello che dice, e l’azione del resuscitare un corpo morto viene compiuta unicamente per la comunità che lo piange, per chiamare alla vita quella stessa comunità che, ancora incredula, resta di fatto dalla parte della morte.

Per questo motivo tutto avviene presso il sepolcro fuori dal villaggio: perché il villaggio è il posto della tradizione e dei morti, e occorre uscire dal villaggio per vedere la vita ovvero la novità del Cristo. Egli non era entrato nel villaggio, ma era rimasto nel “luogo” – laddove il luogo è “il tempio”. Egli stesso è presso un’alterità inconoscibile ed è lui quella stessa alterità.

Un intero villaggio di morti giunge dunque al cospetto di questo evento, per verificarlo. Per vedere dall’apparenza (le carni già putrefatte che si alzano e tornano indietro nella vita) ciò che è una verità che in chi può vedere è già manifesta.
Lazzaro non è morto perché era già risuscitato nella malattia mortale che ‘non è per la morte ma per la gloria di Dio, perché per essa si manifesterà la gloria del Figlio’- viene di lui dunque fatto un ‘uso umano’ diventando strumento di Dio.

Tutta la parabola di Lazzaro permette anche una riflessione sulla rappresentazione: “Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato” (Gv.11, 42).

La comunità è dunque chiamata a ‘vedere’ con i propri occhi ciò che viene inscenato a rappresentare ciò che è sempre e solo un semplice ‘segno’ d’altro. Noi siamo questo e arriviamo dunque lì, nei pressi della scena richiamata da Giotto, all’interno di una meravigliosa struttura incompiuta quale è l’ex-ospedale dei Bastardini, doppiamente chiamati al ruolo di spettatori.

Quello che ci aspetta è un velamento di tutto questo, che avviene attraverso il linguaggio: fino a che Lazzaro e il Cristo possono usare l’ambiguità delle parole (anche a oscurare le verità di cui sono portatori) assistiamo a un corpo di Lazzaro che chiede di essere lasciato nel regno dei morti, quasi  a negare alla comunità intervenuta la rivelazione. In questa negazione dunque e non solo con il tema della morte siamo nel filo che si è dipanato da lontano, e che è possibile rintracciare chiaramente negli ultimi spettacoli: il filo de “Il Velo nero del pastore“, dispiegato in altri modi attraverso “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” e anche nel recente “The Four Seasons Restaurant” e il suo legame con Rothko ed Empedocle.
Non va trascurato che nel testo di Hölderlin Empedocle nella morte ‘espia la sua divinità’ e si riconcilia con il tutto in modo più alto rispetto alle condizioni del suo popolo e del suo tempo, permettendo un parallelismo con Lazzaro stesso.

Fino a quando Lazzaro e Gesù possono restare nel cerchio ambiguo della parola possono però anche traslare di senso e interpretazione la loro verità e il loro destino. Quel destino letto dalla Socìetas come (seguendo Oliviero Ponte Di Pino) una sorta di ‘malinconia dell’irrimediabile’.
E se Lazzaro mostra a parole un disgusto nel rientrare da cadavere tra i cadaveri, e chiede di essere lasciato nel sepolcro, invitando anche Gesù a stare al suo fianco (sarà Tommaso, nel Vangelo, a dire che loro vanno da Lazzaro ‘per morire- ovvero nascere a nuova vita- con lui’) – nel momento in cui il linguaggio viene eroso, ricondotto attraverso la Lingua Generalissima a una essenzialità appena concepibile e comprensibile, ecco che l’azione si ribalta e conforma al vero e ineluttabile intento.

Il cadavere Lazzaro si pone davanti al suo villaggio, frontale, si fa guardare risorgere le carni perché questo è richiesto dagli spettatori, mentre Cristo viene portato cadavere non sulla croce ma sulla ruota del linguaggio. La stessa ruota che ci ha accolti nella prima stanza, uno schema che raccoglie le poche centinaia di parole che racchiudono (sono racchiuse da) tutta la Generalissima.

Siamo partiti da un cantiere in cui funzionari disumanizzati trattano con la precauzione dovuta alle scorie nucleari (tuta bianca, guanti, maschera) gli attrezzi che costituiscono il nucleo del lavoro: non solo la ruota del linguaggio, ma anche la possibilità della sottrazione e della costruzione dell’immagine come parte essenziale richiesta dagli spettatori per verificare la divinità del divino. A noi è portato un destriero e il suo calesse, perfettamente integri nell’essere mostrati attraverso parti di quattro zampe e una ruota incompleta.

Sacrificato il Cristo, resuscitato e non creduto Lazzaro, sottratto il linguaggio, si entra quindi nel proprio corpo e dunque nell’universale verità attraverso la vibrazione sonora prodotta dal gruppo musicale Phurpa, che sfoglia sul leggio una partitura arcaica dalla notazione particolarissima.
L’intero enorme salone è percosso dalla voce e risuona di essa, pervadendo tutto ed entrando nelle viscere dei presenti, in un ritorno al suono originario, pre-tragico e pre-cristiano che entrambi li riassume e condensa, come fu il parallelismo e la sovrapposizione nei secoli di Cristo e Dioniso. Duemila anni e non un solo nuovo Dio avrebbe detto Nietzsche.

A questo si sovrascrive la complessità dei millenni trascorsi, in cui il ruolo stesso di immagine, linguaggio, dubbio, si sono sedimentati di sensi non indagabili solo attraverso il raziocinio ma forse possibili da intravedere tramite un primordiale corno da caccia in grado di richiamare in qua la questione di cosa è vita, e cosa, infine, è la morte.

Uso umano di esseri umani – un esercizio di Lingua Generalissima
di Romeo Castellucci
musica dal vivo: Phurpa
testo: Claudia Castellucci
suoni: Scott Gibbons
con: Simone Bobini, Dario Boldrini, Bernardo Bruno, Silvano Voltolina
e con: Isabella Benedettelli, Nina Bollini, Sabina Borelli, Gemma Carbone, Serena Dibiase, Nicole Guerzoni, Silvio Impegnoso, Andrea Alessandro La Bozzetta, Andrea Meloni,Paola Stella Minni, Manoel Morelli, Filippo Pagotto
disegno tecnico della Generalissima: Paride Piccinini
tecnica del suono: Stefano Carboni
attrezzeria: Vito Matera, Gionni Gardini
produzione: Socìetas Raffaello Sanzio
in collaborazione con: Xing
coproduzione: Electrotheatre Stanislavsky / Mosca; Kunstenfestivaldesarts / Bruxelles
Grazie alla collaborazione di Provincia di Bologna

Visto a Bologna, Ex Ospedale dei Bastardini, il 16 febbraio 2014
Prima assoluta

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