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Fanny & Alexander: 25 anni di alchimia. Intervista

Da parte loro nessuna domanda imbarazzante (photo: Giorgio Termini)|Lagani e De Angelis - Amarcord

Chiara Lagani e Fiorenza Menni in Da parte loro nessuna domanda imbarazzante (photo: Giorgio Termini)|Lagani e De Angelis - Amarcord

Come una galassia vista da una certa distanza, anche guardare la nostra vita retroattivamente può suggerire l’immagine di una miriade di granelli di sabbia sulla spiaggia. Sgranarli tutti è praticamente impossibile, spesso si dimenticano passaggi fondamentali, ma si ha un’affezione particolare per i piccoli dettagli. D’altro canto la memoria usa un filtro tutto suo, un po’ “picassiano”: elimina, sostituisce, affetta, suggella, colora.

Hanno pensato bene, quindi, Chiara Lagani e Luigi De Angelis di festeggiare i 25 anni della loro attività artistica invitando gli spettatori a condividere un ricordo personale della bottega d’arte Fanny & Alexander, fondata a Ravenna nel 1992, e costruire così un atlante di ricordi alquanto singolare.

«Fanny & Alexander fa parte di un patrimonio collettivo – ci racconta Chiara Lagani – Gli spettatori ne hanno una loro visione, chissà che mosaico si compone, un ritratto pazzesco che nessuno, nella singolarità, potrebbe compiere. E’ la bellezza delle opere d’arte, che non stanno principalmente nell’immaginazione e nella coscienza di chi le crea, ma in una coscienza collettiva, che le modifica, le tradisce, le riconsegna in una maniera anche profondamente diversa. Ecco perché abbiamo scelto di fare questo gioco con gli spettatori, chissà cosa ci arriva…».

Chiara Lagani è dotata di una febbrile loquacità, trasmette subito una grande generosità intellettuale e artistica, e tanta passione per ogni fase di cui si compone il suo mestiere. Ha una parlata viva e veloce, non è facile starle al passo quando ci risentiamo al telefono, l’indomani della prima in Veneto di “Da parte loro nessuna domanda imbarazzante”, ospite del Teatro Ca’ Foscari di Venezia nell’ambito della rassegna ALT/ERA-ZIONI. Difrazioni di senso.

In un certo ugual modo, di memoria e di pieghe impreviste che può prendere un viaggio a ritroso nel passato, si parla anche in questo spettacolo.
Viene spontaneo chiederle come è arrivata a lavorare sulla quadrilogia de «L’amica geniale» di Elena Ferrante, a cui si ispira la messa in scena.
«E’ stato un incontro inaspettato, che mi ha per prima cosa avvinto. Ho letto i suoi libri tardissimo, la mia resistenza, proprio per come sono fatta, era dovuta al fatto che fosse un fenomeno così mainstream. Mi dicevo: “Una cosa così popolare, che piace a tutti, avrà sicuramente degli elementi commerciali”. Un’estate ho letto il primo libro, e… non l’avessi mai fatto [ride]… La Ferrante riesce, con una strategia stilistica avvincente, a stratificare così tanto la sua narrazione da raggiungere un pubblico vastissimo. Io penso di essere stata catturata da tutti questi strati, cioè da quello dell’elaborazione intellettuale e letterario più raffinato, a quello più basico, più animico, archetipico, anche semplice e stereotipato se vogliamo, per cui riesce a darti questa sensazione, di capitolo in capitolo, di dipendenza dal personaggio e dalla storia. E poi l’identificazione è l’altra grande questione che, secondo me, nei suoi quattro romanzi è attivissima. Chi non ha avuto un’amica geniale, potremmo dire? Le persone che si innamorano di questo libro sono quelle che riconoscono caratteristiche, a volte episodi, che li racconta traslati nella loro vita, e c’è un’identificazione fortissima, parossistica, cosa che è capitata anche a me. Leggendo questo libro pensavo alla mia amica geniale, che è Fiorenza Menni, e di lì è nata questa scintilla».

I volumi della quadrilogia di Elena Ferrante, autrice misteriosa quanto le sue trame, sono stati pubblicati tra il 2011 e il 2014, e raccontano la storia di un’amicizia, quella tra Elena Greco, detta Lenù, e Raffaella Cerullo, per tutti Lina, ma Lila solo per Elena, due bambine nate e cresciute in un rione di Napoli. Ogni volume è rappresentativo di un’età delle due donne: l’infanzia e la prima adolescenza nel primo volume, la tarda adolescenza nella «Storia del nuovo cognome», il “tempo di mezzo” nella «Storia di chi fugge e di chi resta», e infine il periodo della maturità e della vecchiaia nell’ultimo volume «Storia della bambina perduta».

L’autrice affida a Elena il racconto in prima persona di questa amicizia, rivissuta a ritroso nel tempo dalla donna oramai sessantenne.
Nel primo volume, a cui si rifà la prima parte dello spettacolo di Fanny & Alexander, Elena ricorda quando, per reciproca sfida, le due bambine gettarono la bambola l’una dell’altra in un oscuro e profondo scantinato, perdendole così nel buio. E di come, non ritrovando più le loro bambole, si convinsero che a rubarle fosse stato Don Achille, l’orco della loro infanzia, e facendosi reciprocamente coraggio andarono a reclamarle.

L’entusiasmo di Chiara Lagani mi spinge, prima di proseguire con lo spettacolo, a chiederle di più su ciò che la rapisce e più la appassiona dell’aspetto drammaturgico. Nel rispondere sembra non aver bisogno di pensarci un attimo e quasi senza riprendere fiato si cala immediatamente nella grammatica della sua drammaturgia.
«Come Luigi definisce la regia un’architettura delle scelte, io direi il racconto, la prima domanda che noi ci facciamo sempre nella costruzione di uno spettacolo: è questo che mi affascina nella drammaturgia. E’ ancora una volta un fatto infantile: il bambino cosa ti chiede? Dove siamo, chi sono i personaggi, io chi sono, tu chi sei, ed è la domanda che io ogni volta mi faccio come drammaturga per iniziare. Disegno uno spazio metaforico, anche lineare, uno potrebbe dire didascalico, ma senza questo passaggio – che è la prima cellula di racconto -, che l’opera fa per se stessa, per esistere, non puoi mica andare avanti… Cosa racconti se non hai delimitato questi confini fondamentali? Il teatro li richiede. Il romanzo può costruirli a poco a poco, ma il teatro è un gioco collettivo, devi avere chiare le regole, senno come facciamo a giocare?».

Lo scorso settembre Chiara Lagani per la sua capacità «di aprire nuove prospettive al mondo del teatro» ha ricevuto il premio speciale per l’innovazione drammaturgica, novità istituita quest’anno all’interno del Premio Riccione, il più antico e prestigioso concorso di drammaturgia che abbiamo in Italia.
«Quando mi hanno telefonato per darmi la notizia saltavo dalla gioia. Ho pensato: “Che bello essere la prima che ha inaugurato un premio che per me è cosi importate culturalmente!”. Perché è anche un premio che viene dato a una parte di teatro italiano in cui io credo moltissimo, e che non ha avuto finora un riconoscimento adeguato. In Italia ci sono delle forme di drammaturgia mirabili, preziose… Ci sono infiniti modi di guardare al testo e alla stratificazione narrativa che passano attraverso gli spettacoli, ma anche attraverso l’attività pedagogica, e la costruzione di dispositivi, vedi il nostro caso con l’eterodirezione. Il Premio Riccione, proponendo un premio all’innovazione drammaturgica, secondo me dà un’indicazione in questo senso. E’ un fatto notevole che potrebbe riscrivere anche gli studi sulla drammaturgia».

La nostra chiacchierata può ora tornare sullo spettacolo ideato a sei mani insieme a Fiorenza Menni e Luigi De Angelis, che ha curato anche la regia e il progetto sonoro.
«La partitura gestuale la costruisce sempre Luigi. Sono operazioni molto legate al suono, operazioni ritmiche profonde, a partire da un catalogo di gesti che viene costruito in complicità con gli attori dello spettacolo. Luigi lavora molto d’istinto, ha raggiunto una profondità tale di evoluzione che vede immediatamente se un gesto è nella posizione giusta o se deve essere spostato. La fase di prova è molto interessante perché lui verifica una cosa che ha costruito a tavolino sui nostri corpi e la ridisegna in diretta».

“Da parte loro nessuna domanda imbarazzante” si divide in due parti distinte ma collegate, una sorta di “sottosopra mondo” drammaturgico, ma anche «psichico, metaforico, interiore».

La prima parte corrisponde al “sopra”, è il luogo luminoso in cui si colloca la narrazione che rimane fedele al testo. Una fedeltà dettata da condizioni pratiche (la casa editrice ha dato l’autorizzazione a lavorare sul testo solo in forma di lettura scenica), che anziché rappresentare un limite, «perché – ricorda Chiara – quando pensi a una messa in scena il tradimento è necessario», ha incanalato il lavoro nella costruzione di una particolare e vertiginosa partitura verbale e fisica, dove Chiara e Fiorenza sono i due personaggi del racconto, e allo stesso tempo uno solo. Le loro voci tendono infatti a fondersi, sdoppiarsi, contrapporsi; mentre i movimenti coreografati, semplici e giocosi, costruiti da De Angelis e Menni su partiture tratte dalla coreografie da Pina Bausch e Trisha Brown, poi stilizzate e costruite in una grammatica diversa, sono discronici.

Questa prima parte è sicuramente la più avvincente. Sia la presenza nel testo degli elementi della fiaba, quindi un repertorio simbolico che ha una grande ricaduta sull’immaginario umano: l’orco, il buio dello scantinato, la tensione tra coraggio e paura, amore e odio, la bambina-bambola; sia l’elaborata struttura ritmica, talmente equilibrata da sembrare una partitura musicale, giocano un ruolo fondamentale, nel muovere la curiosità e il processo d’identificazione dello spettatore. Questo è “lo strato” in cui il particolare dispositivo dell’eterodirezione che la compagnia usa ormai da 10 anni per costruire i suoi spettacoli, presente ma non visibile in questo caso, funziona in modo sorprendente.

Lagani e De Angelis – Amarcord, giovanissimi, negli anni Novanta

«Luigi compone la partitura in relazione a un testo che noi abbiamo in cuffia e disegna anche un contrappunto ritmico continuo, una sfasatura, decide quando ricongiungerci, separarci, calcola persino la latenza». Tra i momenti infatti più destabilizzanti, un vero tuffo al cuore, c’è quello in cui solo per qualche secondo, la voce di Chiara, in particolar modo, ma anche quella di Fiorenza, si infantilizza improvvisamente, con una tale credibile immediatezza da diventare una vera “presenza” in scena.

«Le immagini – scrive Giorgio Agamben – hanno bisogno, per essere veramente vive, che un soggetto, assumendole, si unisca a loro.»
Chiara rende bene l’idea quando raccontando del dispositivo dell’eterodirezione ne fa un discorso di possessione.
«Abbiamo lavorato su questa voce infantile che ogni tanto viene fuori, e non capisci se a parlare sono due adulte o due bambine, se i corpi sono adulti che ogni tanto si infantilizzano o magari sono due bambine già adulte dalla nascita. Quando le nostre voci si infantilizzano è perché abbiamo le voci di due bambine nelle orecchie, che hanno prestato le loro voci per i due ruoli di Elena e Lina. E quindi quasi senza avvedermene entro in quel registro, perché con l’eterodirezione non ti accorgi esattamente di cosa succede, sei talmente consegnato, in abbandono a quello che ti passa nelle orecchie che avviene tuo malgrado, è una sorta di possessione molto forte. Non diventa meccanico, rimane sporco, non è un lavoro esecutivo ma di affido totale.»
Se la prima parte è il sopra, la seconda è il “sotto” di questo sottosopra mondo spettacolo. E’ lo scantinato, è il buio, è l’altra parte complementare, è quello che c’è oltre il racconto, il voler dare, da parte degli autori, una risposta immaginifica a delle domande che nel libro non trovano una risposta.
«Proprio come potrebbe fare un bambino che si chiede dove sono finite le due bambole misteriose, che scompaiono e poi ritornano. Le avrà prese veramente Don Achille? Qual è il mistero che le avvolge?».

In questo secondo strato, che vuole essere anche metaforicamente la stanza buia in cui ognuno di noi almeno una volta ha voluto entrare, le due amiche/attrici diventano il loro alterego, delle bambole nere un po’ spaventose, dalle movenze meccaniche e artefatte. Mentre il testo scritto da Chiara Lagani è a sua volta un puzzle di frasi, filastrocche, versi di Lyman Frank Baum, Toti Scialoja e Wislawa Szymborska – a cui si deve anche il titolo dello spettacolo.

Ma se la prima parte ha una struttura forte ed efficace, la seconda – che, spingendosi oltre i confini del racconto, ci si aspetta possa librarsi ancor più in volo raggiungendo vette più elevate di tensione e opportunità – è in realtà ancora molto fragile, e l’ombra di cui vive sembra indebolirla più che vivificarla. Il potere immaginifico infatti viene meno, e anche la dialettica con lo spettatore risente del calo di tensione drammaturgica e interpretativa.
Lo stesso finale, un po’ “sfumato” e un po’ “mozzato”, lascia nel pubblico un sospiro di perplessità.

Avremo modo comunque di vedere come proseguirà il progetto. Il debutto del secondo capitolo, prodotto da Ravenna Teatro, è previsto per la prossima estate, a fine giugno.
«Sarà una prosecuzione, vorremo arrivare, sempre per episodi simbolici, all’età adulta e e poi alla vecchiaia. Continueremo a lavorare sviluppando la partitura anche in altri modi, entrerà il video, e anche un lavoro sui suoni più profondo. Luigi compirà delle registrazioni nelle città di questa storia, Napoli in primis, ma poi anche Firenze e Milano, le città che vengono toccate dalla storia. Costruiremo dei luoghi mondo, perché Napoli è una protagonista della storia, è la città corale e verrà restituita come fantasma sonoro. Ricreeremo proprio degli ambienti:il pranzo di famiglia napoletano, il porto, il mercato, il rione, andremo a recuperare degli ambienti sonori evocativi che in qualche modo diventeranno un ulteriore personaggio».

Nel frattempo, fino all’8 dicembre, E-production presenta a Ravenna la sesta edizione di Fèsta, festival dedicato alle arti performative contemporanee. Con un programma che vede nel lavoro di Fanny & Alexander il suo principale focus tematico, così da festeggiarne il venticinquesimo anno d’attività.

Per chiudere il cerchio chiedo così a Chiara da dove nasce quella particolare natura alchemica che, in questi 25 anni, ha contraddistinto il teatro di Fanny & Alexander.
«Le collaborazioni, l’aspetto pedagogico, tutte le persone con cui abbiamo lavorato in questi anni ci hanno dato tantissimo. E’ la nostra stessa concezione di gruppo che procede per questo. Fin dall’inizio ci definivamo non un gruppo di teatrale ma una bottega d’arte, facendo riferimento all’idea rinascimentale di quel gruppo di anime operaie riunite in una stanza sotto la guida, magari di un Bernini, che contribuivano con la propria competenza tecnica, ma anche con la propria scintilla d’anima, alla nascita di un’opera colossale. Noi abbiamo sempre immaginato i nostri procedimenti creativi in questo modo. Penso sempre a una sorta di esperimento chimico, in cui tu metti dei minerali, degli elementi, delle sostanze, e poi misteriosamente, non so nemmeno dirti come, si agglomerano, e questo avviene perché le singole parti sono scelte bene e funzionano bene ognuna per sé. Per noi il processo creativo è sempre questo: tu agglomeri sostanze e il massimo divertimento è avere delle autonomie artistiche che in qualche modo fondono la bellezza delle loro menti».

Da parte loro nessuna domanda imbarazzante
con Chiara Lagani e Fiorenza Menni
ideazione Luigi De Angelis, Chiara Lagani, Fiorenza Menni
drammaturgia Chiara Lagani
regia e progetto sonoro Luigi De Angelis
cura del suono Vincenzo Scorza
costumi Midinette
testi della prima parte: brani da L’amica geniale di Elena Ferrante
testi della seconda parte: Chiara Lagani, Lyman Frank Baum, Toti Scialoja, Wislawa Szymborska

durata: 60′
applausi del pubblico: 1′ 35”

Visto a Venezia, Teatro Ca’ Foscari, il 15 novembre 2017

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