7 14 21 28. Chi ha paura di Antonio Rezza?

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7 14 21 28 (photo: teatrovascello.it)

Mi trovo per la prima volta ad assistere a uno spettacolo in compagnia di due colleghi di redazione, Simone Pacini e la fantomatica Kiara Copek. Ci diamo appuntamento nel foyer e subito si prendono accordi su come gestire la critica. Io spingo per un vero e proprio pezzo a tripla firma; finirò per occuparmene io, ma insisto che gli altri due mi mandino qualche riga di commento da inserire nella recensione. Già dalle prime battute il pubblico ride e Kiara rimane seria, si gira verso di me e dice in tono acido: «Che c’è da ridere?». Via via che lo spettacolo va avanti, però, la vedo sorridere e addirittura, verso la fine, ride a denti stretti e sussultando sulla sedia. Si vergogna la Copek, ma Rezza diverte anche lei.

“7 14 21 28” è il nono spettacolo della compagnia Rezza/Mastrella, uno spettacolo “(mai) scritto”, ci avverte il programma. Di mio avevo assistito solo a “Fotofinish” (2004) e conoscevo la produzione televisiva di Antonio Rezza. Conoscevo poi l’intervista fatta da KLP, nella quale i due autori parlavano di come il loro teatro non sia fatto per dare messaggi, di come in esso in fondo ci sia ben poco da capire. In risposta all’impellente bisogno degli spettatori di trovare qualcosa di comprensibile a cui aggrapparsi, Rezza rispondeva: «Non mi piace il pubblico perché annulla la speranza di liberarsi dalla comprensione, questo è sbagliato». E Flavia Mastrella aggiungeva: «Non si tratta più di capire, è una questione di vivere e vedere. Uno deve stare lì senza pensare a dover capire. Che devi capire? La vita la subisci». C’era poi la polemica rivolta al teatro di narrazione, che “ruba” al fatto di cronaca circostanze, presenze e nomi e ne fa spettacolo, quando il teatro secondo Rezza/Mastrella dovrebbe essere solo fantasia. Fantasia che vive continuamente il pericolo di non manifestarsi, proprio per la mancanza di spazi e di possibilità offerte dallo Stato. Il paragone era con quegli equilibristi al circo: quando c’è la rete non è un grande evento, è quando la rete manca che il pubblico si emoziona, perché percepisce il pericolo. Anche non essere sovvenzionati è un pericolo, una minaccia d’estinzione. Eppure il pubblico, concludeva Rezza, non lo saprà mai. In qualche modo la magia sta lì.

Quindi, riassumendo: un teatro indipendente che sia espressione di una forza spirituale e che non parli d’attualità (nei confronti della quale l’unica via che evita la strumentalizzazione è quella che ti porta a “tacere”), che metta insieme un mondo immaginifico assolutamente non comprensibile, una fantasia tutta da subire. Questo il manifesto. Di certo chiaro, anche senza bisogno di chiamare in causa una schiera di “ismi” per definirlo.
Non era a caso, allora, la metafora dell’equilibrista: Antonio Rezza occupa la scena come un clown, usa tutto lo spazio, divide l’azione in entrate e quadri, monta una performance sudata, scalpitante, forsennata, arrabbiata, senza alcun accenno di risparmiarsi. In scena con lui soltanto attrezzi: un’altalena, una corda che si srotola, una rumorosissima pedana dondolante, vari tagli di lycra e di tulle per prendere forma in un bislacco circo di figura. Muto (e sempre più spesso nudo) Ivan Bellavista fa da contrappunto alla solitudine. Il resto è puro fisico e sinapsi impazzite. Il filo c’è: anche se non è di carattere logico, ed è un filo che si annoda spesso sulla presenza ingombrante di Rezza, sul suo corpo lungo e glabro, sulla sua faccia di gomma, sulla sua versatile chioma riccioluta, che diviene anch’essa oggetto di scena. Sul maltrattamento di tutto questo. E sul maltrattamento del pubblico.

Prima di parlare di quest’ultimo atteggiamento, una riflessione va al fatto che, per quanto assurdi, incomprensibili (in quell’accezione da loro così ben specificata), forsennati, irriverenti, anarchici e fuori onda, Flavia Mastrella e Antonio Rezza desiderino essere, il legame con l’attualità resta ed è forte. A volte la performance è davvero separata, esiste fine a se stessa, viene servita talmente al dente da tenere l’attenzione del pubblico lunghi minuti fissa a seguire un bislacco matrimonio osservato da quattro punti di vista. Non è facile nemmeno rendere godibile il gioco a campana in cui a ogni posizione occupata sul palco corrisponde un numero che rappresenta l’età del personaggio descritto: Rezza salta da una all’altra elencando le varie parentele, creando e disfando storie senza perdere mai un colpo. Rapisce anche il breve equivoco semantico tra “è bona l’acqua è bona” come affermazione e “è bona l’acqua è bona?”

Sono tre esempi di scene riuscite proprio perché semplici e assolutamente staccate da qualsiasi logica e contestualizzazione. È un cerchio totalmente teatrale. La traccia evidente di quel teatro che Rezza e Mastrella sognano. Peccato che troppo spesso, tra queste ruote, si piazzino due bastoni fatali: la ricaduta nell’attualità e il rapporto con il pubblico.
La prima tendenza, soprattutto se identificata con la nemesi programmatica della compagnia, dovrebbe essere tenuta costantemente fuori, cacciata a pedate. E invece si parla di educazione, si parla di votazioni, di leader politici, di preti pedofili, di alienazione da fabbrica e di tagli alla Cultura. E sono le scene meno riuscite, quelle che ti danno di gomito per provocarti la risata. Quelle autoreferenziali, che ridono di se stesse.
E qui torna quel rapporto malato con il pubblico: Rezza detesta che si tenti di capire. Ma allora a che serve dilatare una gag per provocare la risata? Allora perché offendersi perché il pubblico non contribuisce al ritmo dello spettacolo?
È davvero giusto sederci in platea e, durante gli applausi, sentirci maltrattati da un performer insoddisfatto delle nostre reazioni? Lo sarebbe se ci venisse accordato, in partenza, il rispetto dovuto a chi entra e assiste per partecipare. Ma non quando sappiamo di non essere stimati fin dal principio. Ecco perché, nella scheda sottostante, la sezione “applausi del pubblico” ha un minutaggio reale e uno effettivo.

Eppure in qualche modo c’è un che di affascinante, in questo personaggio ora repellente, ora provocante. Di certo un grande rispetto per il seguito che è riuscito a crearsi. La pensa così anche Kiara Copek, che alla fine sentenzierà: “Non so se Rezza ci sia o ci faccia, ho visto solo questo spettacolo ed è poco per giudicarlo, ma gli riconosco l’abilità di essersi costruito un pubblico di affezionati masochisti che amano sentirsi maltrattati da lui a teatro, un po’ come con i clown al circo. Dal canto mio credo che sia divertente, ma nemmeno così tanto, una comicità molto televisiva, in termini di battute ed argomenti, senza scarto teatrale, senza poesia, senza metafore, una gag dietro l’altra incollate nemmeno tanto bene sotto forma di spettacolo. Una comicità televisiva con tempi teatrali però, che forse non funziona né a teatro né in televisione, forse una comicità nuova (se proprio vogliamo dirne bene) per la quale ancora non è stato inventato il contenitore giusto”.

7 14 21 28
(mai) scritto da Antonio Rezza
produzione: Compagnia Rezza Mastrella – Teatri 91 – FondazioneTPE
regia: Flavia Mastrella e Antonio Rezza
interpreti: Antonio Rezza, Ivan Bellavista
habitat: Flavia Mastrella
assistente alla creazione: Massimo Camilli
disegno luci: Maria Pastore
durata: 1h 40’
applausi del pubblico: 6’ 22” (effettivi 3’ 09”)

Visto a Roma, Teatro Vascello, il 18 dicembre 2009

5 Comments

  1. says: sergio

    caro antonio, forse sembrerà assurdo, ma questa mia è una proposta di stretta di mano. In definitiva, che tu ci creda o no, lo era anche l’articolo stesso. il tuo elenco di argomenti è chiaro, limpido. forse l’unica cosa che proprio non colgo è il “gioco sulle posizioni speculari nello spazio che le affossa”. Ma mi capita spesso di non capire, figurati. Ti assicuro che tutto quello di cui credi che io non abbia capito il senso, era invece perfettamente chiaro. Non pensare che non mi siano chiare le vostre posizioni nei confronti di tutti quegli argomenti. Sono chiarissime tanto nel loro essere una critica, quanto nel loro essere una provocazione. Ma sono chiare SOPRATTUTTO anche senza bisogno di chiamarle per forza con il nome di critica o provocazione. Quel che ho detto – e che ripeto – è solo che nella linea seguita in scena si toccano anche punti di attualità. Le precisazioni che mi fornisci tu riguardano il modo in cui quell’attualità viene trattata, la posizione assunta nei suoi confronti, o un semplice tocco di stile. Tutte cose che osservo con piacere, che accolgo e che non ho bisogno né di approvare né di disapprovare. Perché la mia critica non toccherebbe mai le motivazioni e le scelte di un artista. Mai. E se leggi bene ogni mio pezzo, non c’è mai una condanna alle intenzioni, alle posizioni, o all’estetica. Mai. Neppure qui. Mi sono limitato a individuare – perché credo che questo debba essere chiesto alla critica – quali secondo me fossero i punti di forza e quali i punti di debolezza del vostro rispettabilissimo spettacolo. Punti di forza e debolezza non rispetto alla purezza del messaggio, ma alla sua resa come prodotto teatrale. Chiaramente secondo la mia veduta. Se insisto è solo perché non credo che del mio articolo si potesse dire che diceva cose non vere. Mi spiace che tu metta in dubbio la mia capacità di comprendere che a voi dell’attualità non ve ne frega niente, che non ve ne frega niente del precariato o della politica. Io questo lo capisco. Capisco che toccate certi argomenti (quelli che ho e hai elencato) per esprimere una vostra visione, per rendere chiaro “quello che vi muove”. Per me questo è chiarissimo. Sono d’accordo con te che al giorno d’oggi in giro per i palcoscenici è pieno di ipocrisia. Molti fanno leva sugli argomenti di comprensione comune per montare una popolarità, per fare fumo. Nient’altro, secondo me, che un tentativo di rifuggire una presa di posizione. Io apprezzo tantissimo che voi siate invece tra quelli che una posiizone la prendono eccome. Ripeto, fate qualcosa per rendere chiaro, in maniera assolutamente personale, “quello che vi muove”. Non siete gli unici a farlo. Ed è questo che secondo me bisogna fare. Ti assicuro una volta per tutte che tutto quello che mi offri come precisazione mi era chiaro già in platea. Ho solo detto che non sempre certi momenti erano i più riusciti. Forse anche solo perché erano i più difficili da rendere. A volte reggevano, a volte no. Non c’era processo alle intenzioni. Ho fatto di tutto per riportare la vostra estetica usando la vostra terminologia e conducendo una critica assolutamente analitica, senza preconcetti, senza pregiudizi. Una critica che vorrei tanto sperare utile. Per il pubblico e per te come per tutti gli artisti.
    Spero mi inviterai al prossimo tuo spettacolo. E’ bello che ci sia dialogo.
    grazie
    Sergio

  2. says: antonio rezza

    allora mettiamola così: devo scendere nel didattico per dimostrarti che menti.
    io non parlo di attualità, non parlo di precariato, non mi interessa la condizione del precario, credo che l’instabilità sia l’unica forma di salvezza. il mio è un precariato posturale, l’essere in bilico sulla spina dorsale. hai compreso questo? evidentemente no. io non parlo di tagli alla cultura, non me ne frega un cazzo dei tagli alla cultura, io e flavia mastrella non abbiamo mai preso, per scelta ideologica, una lira in 23 anni, cosa vuoi che mi importi se lo stato tolga i soldi al teatro, al cinema ecc. avevi capito questo? no. io non parlo di preti pedofili, non mi interessa, quello è un gioco sullo spazio, con il crocifisso che si avvicina perchè il corpo cresce e l’inculatura resta identica a se stessa. hai compreso questo? no. non parlo di referendum, dimmi dove c’è referendum nello spettacolo. non mi interesso alla politica, non mi interesso di chi è stato più sfortunato di me poichè costretto a promettere in cambio della popolarità. quello che faccio per un minuto è un gioco sulle posizioni speculari nello spazio che le affossa. hai capito questo? no. quindi sono due le cose: o non ti è chiaro quello che ci muove (e questo è comprensibile perchè ciò che muove l’arte è estraneo a chi l’arte non la fa) oppure menti. torno a ripetere: non puoi scrivere che io parlo di precariato, di preti pedofili, di tagli alla cultura quando a me di queste cose non me ne frega un cazzo. non per cinismo, ma perchè sono autentico in quello che faccio. siamo autentici, se vuoi puoi toccarci, ma non falsificare il nostro pensiero con le tue deduzioni. fino a prova contraria il significato di quello che facciamo, se mai ci fosse, lo sappiamo meglio noi di te. grazie ciao antonio

  3. says: sergio

    Caro Antonio, sicuramente ami il pubblico che ti dà energia. Sicuramente non ami quello che non te la dà. Ero lì come spettatore, prima ancora che come critico, e ho avuto questa sensazione. Non volevo, come non voglio mai, sminuire nessuno sforzo, meno che mai alcuna immensità o diversità, soprattutto quando quest’ultima qualità, quella della diversità, è quella di cui io e i miei colleghi di Klp andiamo in cerca. E non è sempre facile trovarla. Che io debba imparare a vedere… sono d’accordissimo, senza ironia alcuna. Scrivere di teatro è anche e soprattutto imparare a vedere – almeno per me – . Tutto ciò che ho scritto in questa recensione che, come mio solito, più che un giudizio vuol essere una riflessione aperta, è tutto ciò che ho visto. Trovo che ogni artista abbia il diritto di criticare una critica, anche solo perché così facendo dimostra l’attenzione ad essa dedicata (ed è un lusso). Non entrerò nel merito di quel che ho scritto, non spiegherò la mia critica, mi sembra sufficientemente chiara. Mi spiace solo sentirmi dare del bugiardo quando ho scritto solo quel che vedevo, che sentivo, l’impressione che mi ha fatto. Senza fare malinformaizone. Quindi il termine “menzogna” è e resta fuori luogo.
    Ti ringrazio di aver letto la nostra opinione. Anche – sicuramente – a nome di Kiara.

  4. says: antonio rezza

    come si può pensare che noi si nomini l’attualità per usarla come grimaldello? si può dire che il gomito che ci si da dovrebbe finire nell’occhio di chi scrive per farsi capire. come si può solo far credere che io, antonio rezza, non ami il pubblico che mi da energia? come si può definire attualità un crocifisso che si avvicina al viso di chi viene inculato dalla media comprensione? come si può definire televisiva una pratica come la nostra, figlia dello sfiancamento e dell’ultimo spasmo? come si può scrivere simili menzogne? per sminuire cosa poi? la nostra immensità e diversità? non dico impara a scrivere, dico solo impara a vedere tu che non vedi. e impara a non mentire. grazie in ogni caso. ma non mentire. antonio rezza

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