Da una frontiera all’altra dell’immaginario collettivo, macchiato dal timore di una sicurezza precaria. In tempi in cui la parola quotidianità si sta corrompendo a causa di quella ben più codarda – per le cause che la determinano – che è terrore, c’è chi decide di attraversare il mondo, per andare dal Nuovo Mondo a quello molto più vecchio ed usurato dell’Antico Testamento.
Natalia Gómez è di Aguascalientes, capitale dello stato omonimo, uno dei 31 che fanno parte della Repubblica del México. È nata nel 1990, ed è danzatrice, coreografa, attrice, cantante, fotografa. Ha deciso di tornare a Gerusalemme, dove aveva già vissuto quattro anni, per portare avanti i suoi progetti di danza e di arte. A costruire, insomma.
Grazie ai suoi genitori è cresciuta in una casa piena di amore per l’arte, Natalia Gómez. Ha compiuto i primi passi nella danza grazie al flamenco e a una grande maestra, Zambra Contreras, famosa ballerina di flamenco in México: la chiamava ‘chispa’, scintilla. Altri due grandi maestri, a Querétaro: Alonso Barrera (regista del mai troppo elogiato “El Año de Ricardo”) e Agustín Meza, che l’hanno aiutata nella sua formazione, nella vita e nell’arte.
Tra il 2015 e il 2016 “Los Años Azules”, film ora in fase di post-produzione che l’ha vista come interprete, girato a Guadalajara per la regia di Sofía Gómez; e la registrazione del brano musicale “Like the sun with the yellow feathers”, che spera sia il suo primo singolo (chi volesse saperne di più può contattarla scrivendole a gomez.vazquez.n@gmail.com).
Da Israele veniva, la Gómez: ci era arrivata nel 2011, dopo essere stata ad Amsterdam, per un “corso intensivo di coreografia alla School of New Dance Development; e anche se per poco tempo, per me è stato uno spartiacque creativo” come ci conferma, raggiunta in viaggio verso Gerusalemme.
Nel 2011 vinci una borsa di studio e arrivi a Gerusalemme per iniziare i tuoi studi di Teatro Visuale nella School of Visual Theatre (SVT).
Dopo Amsterdam volevo passare un lungo periodo fuori dal Messico. Ho trovato per caso su internet la SVT: ho scoperto solo dopo che si trovava a Gerusalemme, e questo ha aumentato la mia curiosità. Pensavo sarebbe stato meglio andare in un posto dove potessi vivere una cultura totalmente differente, sconosciuta, e imparare qualcosa che non fosse solo arte. Credo sia stato il posto giusto: una scuola dalle porte aperte per la creazione libera; ho potuto conoscere molta gente e realizzare parecchie cose, dentro e fuori di essa.
Nel 2013 ricevi un’altra borsa di studio, per Eccellenza Accademica, dal Ministero della Cultura di Gerusalemme e prosegui fino lì fino al 2015 con molti progetti. Poi il breve ritorno in Messico e ora di nuovo Gerusalemme.
Non so ancora con certezza cosa farò. Ho colleghi con cui sono in contatto e vogliamo creare qualcosa insieme: questo è già un punto di partenza per me.
Vieni da un Paese che, agli occhi di molti, è assai pericoloso… Com’è stato vivere a Gerusalemme, altro campo di battaglia quotidiana?
Non ti posso negare che molte volte sono arrivata a sentire paura, che poi si trasformava in rabbia, impotenza. La cosa interessante è che anche chi vive a Gerusalemme è colpito dalle varie notizie che arrivano dal Messico. Da qui ho capito che la paura, la violenza e la lotta sono cose che condividiamo.
E poi, il semplice fatto di sopravvivere lì per quattro anni, credo sia stato più che sufficiente per conoscere un luogo. Tutto – dall’andare al mercato fino al perdersi in un quartiere e ritrovarsi all’improvviso in un posto dove non avresti dovuto stare, lavorare e soprattutto imparare l’ebreo e un poco, ma molto poco, di arabo – mi ha permesso di ampliare le mie opinioni su quel luogo o, per meglio dire, cancellare i miei preconcetti. La situazione che si vive a Gerusalemme ha molti punti di vista, e quando si giudica da lontano, senza conoscere direttamente la verità delle cose, è molto facile avere un punto di vista non corretto.
L’arte ti ha aiutato a conoscere meglio quei luoghi?
È stato uno strumento importantissimo per capire come loro vivano, giorno dopo giorno, questo stato d’emergenza. Non avrei potuto capirlo meglio leggendo i periodici, né parlando con la gente. Certo, lo è stato per me che vedo l’arte come un linguaggio “ulteriore”, uno strumento di comunicazione che può permettere di toccare aspetti più profondi della percezione umana del mondo.
In generale, ho notato che l’arte contemporanea in Israele utilizza molto il cinismo e meno la “autocommiserazione”, che è quasi esplosa in Messico (molto alla “Frida Kahlo Style”).
Forse il cinismo li aiuta ad esprimere e far risaltare meglio la costante contraddizione in cui si vive. Per questo l’arte è necessaria. Altrimenti, chi ce lo potrebbe dire meglio?
I recenti atti di violenza a Oaxaca (Messico), lo stato d’allerta a Gerusalemme, il terrorismo in Europa, la repressione post-golpe in Turchia… Come si potrebbe sperare in un cambiamento, avvicinarsi a una condizione di pace?
Credo nella libertà di espressione, nel rispetto e nella comunità, e so di trovarmi ancora in cammino verso questa direzione, per capire cosa e come si debba fare per generare un cambiamento. A volte penso che potrà avvenire solo quando non presteremo tanta attenzione a tutti questi eventi. Quando inizieremo a lavorare per la pace e la libertà prima di tutto dentro noi stessi. Una volta che capiremo cosa questo significhi, potremo parlare agli altri di pace e libertà.
Chi è un eroe in questi confusi tempi moderni?
Io non ho eroi. Non credo negli eroi. Credo nella forza e nell’intelligenza, così come nella magia e nella bellezza.