Corrado d’Elia, gli eroi omerici e la solitudine d’artista. Intervista

Corrado d'Elia|Iliade
Corrado d'Elia|Iliade

L’“Iliade” è capolavoro assoluto della letteratura mondiale, che ha codificato i caratteri del genere epico. L’epica è esaltazione delle virtù eroiche, ma anche di valori come la pietà, la fedeltà, l’amicizia, che si concretano in grandi individualità assurte a caratterizzare eterni tipi umani e il destino di interi popoli.
All’“Iliade” Corrado d’Elia ha dedicato l’ultimo dei suoi fortunati album. Monologhi da raccontar seduti, come “Beethoven”, “Notti bianche”, “La leggenda di Redenta Tiria” o “Non chiamatemi maestro”, omaggio a Giorgio Strehler.
“Iliade” è anche l’ultimo spettacolo con cui d’Elia, nella prima metà di luglio, ha salutato il Teatro Libero dopo averne curato per diciotto anni la direzione artistica; e il primo spettacolo con cui, il 18 luglio in replica straordinaria al Leonardo, ha inaugurato la nuova avventura al vertice di MTM, Manifatture Teatrali Milanesi, il sodalizio che unisce la sala di Città Studi e il Teatro Litta.

D’Elia, dove nasce questa tua passione per Omero?
Risale agli anni scolastici, al fascino di personaggi eccezionali dotati di carisma e forza fisica, virtù guerriera e spiccato senso dell’onore.

Attraverso le loro azioni, i personaggi omerici sviluppano il senso d’appartenenza e di coesione sociale.
L’eroe omerico costituisce un esempio da seguire perché è forte, coraggioso, intelligente sopra gli altri, anche se ha difetti e debolezze come tutti gli appartenenti al genere umano. Funge anche da tramite fra l’umano e il divino. Di qui l’inestimabile valore documentario di poemi come “Iliade” e “Odissea”, che descrivono in maniera concreta e «totale» la società ellenica nelle sue caratteristiche decisive: il culto sacro dell’ospitalità, l’amore per la virtù e la bellezza, il gusto delle arti, il senso della natura, lo spirito d’avventura.

Sembra che tu dia il meglio di te quando ti siedi su uno sgabello sul palco con pochi suoni, poche luci, e una buona storia da raccontare.
Ho chiamato album questi monologhi perché assomigliano a raccolte di vecchie foto illustrate dalla narrazione. Sono racconti che incontrano la mia sensibilità, i miei sentimenti, e raggiungono le passioni del pubblico.

Il format è sempre più minimalista.
Concedo sempre meno spazio alla teatralità e alla rappresentazione. Ma la fatica rimane. Questo racconto di 75 minuti ha richiesto un anno di lavoro.

Il risultato?
Quello di condividere emozioni, passione e poesia in maniera duratura. Eliminando la finzione. Cercando la profondità. La scelta minimalista dà risalto alla parola. Afferma il potere del gesto e dell’evocazione.

Troppe parole diventano profluvio.
E creano confusione. Chi parla tanto non dice niente. Io credo nella parola come rito e condivisione. La parola deve avere peso per essere logos, origine, epos.

Quali temi hai privilegiato in “Iliade”?
Quelli che riconducono all’oggi: l’empietà, la vendetta, il rancore, l’eroismo. La guerra con la sua forza distruttrice. Ma anche atti di coraggio, pietà e clemenza. O coscienza. Non a caso Calcante dice: «Il dolore è caduto su di noi». Ho cercato di narrare i protagonisti nella loro dimensione umana, empatica. Chi vede “Iliade” prova simpatia per personaggi come Achille, Paride, Priamo, Ettore.

E gli dei?
Sono ridimensionati. Sono messi al servizio della storia. Non sono gli onnipotenti burattinai omerici, ma neppure sono negati alla maniera di Baricco.

Una scelta nel segno della sobrietà e della misura.
Gli eroi narrati usano la stessa ‘koinè’ del pubblico. Non a caso gli spettatori siedono sul palco con me, con le luci diffuse, di modo che io li possa guardare in faccia, recepirne le emozioni, in una sorta di dialogo basato sulle percezioni e su un sentire comune. Io mi relaziono molto con gli spettatori. Cerco la misura di un percorso condiviso.

Iliade
Iliade

Qualcosa manca in “Iliade” rispetto ai tuoi precedenti album, dove le luci erano splendidamente disegnate da Alessandro Tinelli.
La scelta spartana delle luci è meditata, proprio per scarnificare il concetto di rappresentazione. Per puntare alle emozioni semplici, al segno incisivo che rifugge dall’estetismo.

O forse per fare di necessità virtù?
Il percorso con Tinelli è terminato, ma rimangono amicizia e confidenza. D’altra parte anche nei lavori con Tinelli le luci sono sempre state disegnate insieme. In “Iliade”, così come nel recente “Calapranzi”, ho scelto luci con poche variazioni perché m’interessavano rarissimi, simbolici cambi d’atmosfera, evitando la spettacolarizzazione.

Resta però la sensazione che Tinelli sia uno dei compagni d’avventura persi per strada. Che cos’è per te la solitudine?
Mi piacciono i percorsi in solitaria, come le traversate in barca di Giovanni Soldini. Anche nella vita privata ho bisogno di solitudine, per periodi più o meno lunghi. La solitudine è essenziale. Poi si condivide con gli altri ciò che si trova da soli.

Sant’Agostino diceva: «Se sarai solo, sarai tutto tuo».
La solitudine per Sant’Agostino non è atto egoistico, bensì lo strumento per ritornare «in interiore homine» nel segno dell’obbedienza e del rigore. Io sono uno che corre la maratona. Anche quello è un percorso in solitaria. Allontanarsi serve a trovare la forza per il pensiero.

Parli della solitudine come esperienza mistica, una sorta di deserto per anacoreti. Che cos’è la religione per te? Sei credente?
Vengo da una famiglia cattolica. Per un periodo lungo, da ragazzo, sono andato a messa tutti i giorni. Dopo ho intrapreso un percorso mio di studio, riflessione e ricerca per una crescita fisica e spirituale. Per uscire dal male e riconoscermi uomo. Adesso non professo più una fede. Sono molto affezionato alla mia laicità.

Anche il teatro è un’esperienza mistica?
Un dogma filosofico s’incarna anche nella vita. Il teatro è un esercizio pratico e spirituale, non difforme dal precetto benedettino dell’«Ora et labora». Richiede rigore, obbedienza, dedizione.

Richiede anche carattere. Il tuo com’è?
Sono rigoroso con me stesso, lo sono anche con chi mi circonda. Non mi piace l’improvvisazione. Questo mi porta a essere e ad apparire duro.

Sandro Pertini diceva che tutti quelli che hanno carattere hanno un cattivo carattere.
Forse è più giusto parlare di personalità.

La tua personalità artistica era esaltata da uno spazio piccolo, intimo, familiare come il Teatro Libero. Te la caverai anche in spazi più grandi e dispersivi come il Leonardo e il Litta?
È difficile rispondere. Il Leonardo è uno spazio amplificato. Quando progetto un lavoro, lo immagino sempre in funzione dello spazio dove sarà presentato. Passo tanto tempo dentro i teatri. Li guardo. Li studio nei dettagli. Nulla è lasciato al caso. Lo spettacolo è solo l’atto finale di un percorso che inizia molto tempo prima.

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