Dopo 13 anni di repliche in giro per l’Italia e l’Europa, lo spettacolo “Mari”, scritto e diretto da Tino Caspanello, che lo interpreta insieme a Cinzia Muscolino, è approdato a novembre ad Hong Kong, in collaborazione con le università di Chicago e Hong Kong.
Drammaturgo, attore, regista, Tino Caspanello è siciliano di Pagliara, paesino della zona ionica del messinese, incastonato tra il blu del mare e le montagne ricche di vegetazione mediterranea. Un diploma nel 1983 in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Perugia, dove segue anche un corso di regia a cura del Centro di Documentazione dello Spettacolo, poi il ritorno a Pagliara.
Nel 1993, fonda la compagnia Teatro Pubblico Incanto, insieme alla moglie Cinzia Muscolino, presenza costante sulla scena e contraltare ispirativo nella scrittura drammaturgica.
Anni dopo, nel 2011, dà vita anche al Pubblico Incanto Artheatre Festival.
E’ una drammaturgia rarefatta, quella costruita da Caspanello, in cui le parole, spesso in dialetto messinese, e i gesti si fondono in una poetica pregna di attese e silenzi, tra aneliti lirici e sognanti, con corpi teatrali sempre in bilico tra la profonda consapevolezza della propria condizione e l’aspirazione ad un altrove. Una drammaturgia legata alla città di Messina, allo Stretto, e alla complessa e problematica costruzione identitaria che attraversa quel fazzoletto di terra, luogo di passaggio, soglia perenne, tra rimozione e sospensione.
Ricca la produzione drammaturgica, confluita nei volumi “Teatro di Tino Caspanello” del 2012, “Quadri di una rivoluzione” del 2013 e “Polittico del silenzio” del 2016, in cui i testi raccolti non sono ancora mai stati rappresentati.
Premio Speciale della Giuria in occasione del Premio Riccione 2003, “Mari” è approdato così in Oriente per far scoprire uno dei primi lavori di Caspanello. A partire da questa esperienza ad Hong Kong, abbiamo intessuto un confronto con Caspanello per riflettere sul suo teatro e sullo spazio della drammaturgia contemporanea in Sicilia, tra progetti realizzati e percorsi ancora da intraprendere.
Avete festeggiato ad Hong Kong i 13 anni di “Mari”. Qual è la sua forza?
La capacità di riuscire a comunicare oltre la soglia delle parole. La sua apparente semplicità cela riflessioni profonde che coinvolgono tutti, a prescindere dalle differenze geografiche e culturali.
Portare in Oriente la drammaturgia italiana: una sfida e una scommessa. Come siete stati accolti?
L’accoglienza è stata veramente magnifica; tra l’altro “Mari” rappresentava il primo passo per una collaborazione tra l’Università di Chicago e quella di Hong Kong, quindi avevamo una grande responsabilità. Il pubblico, per la maggior parte costituito da giovani, era entusiasta, e bisogna sottolineare il fatto che non c’è l’abitudine di vedere spettacoli di una semplicità disarmante come il nostro, visto che a Hong Kong arrivano quasi esclusivamente i grandi eventi e i musical. Abbiamo notato con gioia che le reazioni non sono state differenti rispetto a tutte le altre repliche e, nonostante i sovra titoli, la partecipazione emotiva è stata perfetta.
Invece, soprattutto in Sicilia, nei cartelloni dei teatri stabili, fatica a trovare spazio la drammaturgia siciliana…
Questo è un dato che qualcuno sarebbe subito pronto a confutare. Ma io credo che chi programma farebbe bene a guardarsi meglio intorno a sé. Poi, ovviamente, le scelte artistiche sono autonome e sono il frutto, spero, di gusti, cultura… A quanto pare, però, la drammaturgia degli autori siciliani, almeno di alcuni, forse quelli che ricevono più riconoscimenti fuori dall’isola, non ha ancora pieno titolo e diritto a essere riconosciuta qui. Ecco, il problema credo sia proprio questo: la difficoltà a riconoscere.
Il tuo teatro si nutre di una scrittura meditata e potente, talvolta rarefatta e piena di silenzi, iscritta anche nei corpi degli attori che partecipano alla messa in scena, e di una lingua che spesso vira verso il dialetto. Come nascono i tuoi testi?
Da suggestioni a volte fulminee, a volte sedimentate in un tempo che raccoglie e rielabora; dipende dall’urgenza di dovere dire qualcosa. Non seguo mai una linea perfettamente strutturata, mi lascio guidare dalla forza del dire, o dalla pacatezza a volte, dai silenzi quando questi sono il segno dell’incapacità di affidare alle parole il senso profondo dell’emozione.
Sull’uso della lingua siciliana, a parte i quattro testi scritti in dialetto, è vero forse il contrario, cioè che la mia scrittura ha virato verso un italiano a volte mediato da un costrutto più regionalistico (il caso di “Sira” per esempio). Sono scelte che ci vengono imposte già all’origine del testo, nel momento in cui, avvertita la scintilla iniziale, insieme a tutti gli altri segni viene percepito anche il linguaggio.
Una formazione di storico dell’arte e scenografo; quali sono i tuoi riferimenti nella scrittura drammaturgica?
Accanto a tutte le suggestioni che possono arrivare, appunto, dalla mia formazione, c’è tutta una grande foresta nella quale mi muovo e che è fatta di musica, film, letture, non esclusivamente teatrali. Cerco di capire ogni giorno cosa può giovare al mio lavoro, anche attraverso i testi che giovani esordienti mi inviano per una lettura o un suggerimento. Poi, ovviamente, ci sono autori che per me rappresentano snodi cruciali, da Edward Bond a Jon Fosse, da Ionesco a Mayorga.
Hai dato vita al Centro per la drammaturgia siciliana. Di che si tratta?
Il Centro per la drammaturgia siciliana, nato in occasione del nostro festival nel 2011, si pone anzitutto la questione della conservazione dei testi: un catalogo che raccolga i testi degli autori siciliani e che li metta in relazione con chiunque voglia conoscerli. Come centro abbiamo partecipato a luglio 2016 alla realizzazione di Write – Residenza internazionale di drammaturgia.
Senti forte l’esigenza di “difendere” e “proteggere” la drammaturgia…
Certamente abbiamo l’obbligo di difendere e proteggere la scrittura; è una testimonianza costante della contemporaneità, una riflessione accurata e profonda che la cronaca non può fare, per statuto, e che ha la capacità di metterci immediatamente in relazione con le nostre capacità critiche e ri-creative.
La scorsa estate, in collaborazione con la rete Latitudini, il piccolo borgo del messinese Mandanici ha ospitato tre giorni di scritture con 9 drammaturghi provenienti da Sicilia e Europa. Quali sono gli spunti di riflessione emersi?
La residenza aveva come finalità principale la relazione tra gli autori, mettere a confronto metodologie e poetiche; non accade spesso che gli autori si incontrino per discutere, analizzare e progettare insieme un percorso, sia pure di pochi giorni. Dalle conversazioni, dalle scritture nate durante la residenza sono emersi dati molto interessanti, ma la cosa più bella è stata la percezione di un sentire comune che ha guidato verso un testo collettivo che oggi vorremmo fare crescere e sviluppare per trasformarlo in un importante progetto teatrale.
Un altro tuo lavoro frutto di un’esperienza di confronto con la drammaturgia europea, ed in particolare francese, è “Niño”. Come nasce?
“Niño” è nato a Grenoble, durante una mia residenza al festival Regards Croisés, festival che aveva invitato diversi drammaturghi provenienti da Francia, Polonia, Belgio, Turchia, Canada e Italia. In quei giorni mi era tornata in mente la storia di una cugina di mia madre, una storia di emigrazione che aveva tramutato la speranza in una tragedia senza ritorno. Sentii subito l’urgenza di raccontare quella vicenda, per dare a quella donna una possibilità di riscatto.
Quali sono i prossimi appuntamenti della compagnia Pubblico Incanto?
Abbiamo ancora repliche di “Mari” a Milano, altre di “Niño”, e a maggio 2017 porteremo a Messina, ai Magazzini del Sale, nell’ambito della stagione proposta dal Teatro dei Naviganti, uno spettacolo andato in scena soltanto in Austria, “Handscape”.
Quali desideri vorreste realizzare?
Vorrei potere realizzare la seconda edizione della residenza di drammaturgia, vorremmo avere uno spazio che sia, come quello gestito fino a una decina di anni fa, il nostro luogo di incontro e creazione… Ce ne sono di desideri, pensieri e progetti: s’impara ad aspettare, e a lavorare affinché si realizzino…