Il cielo non è un fondale. Il teatro di parola di Deflorian/Tagliarini

Il cielo non è un fondale (photo: Elizabeth Carecchio)
Il cielo non è un fondale (photo: Elizabeth Carecchio)

Daria Deflorian e Antonio Tagliarini compongono dal 2008 un duo teatrale effervescente. Quella che per molti è la miglior attrice della scena italiana ha trovato, con l’amico performer e coreografo, un’intesa che sa essere allo stesso tempo scanzonata e serissima: la loro è una drammaturgia di respiro internazionale, come dimostra l’ampio successo di “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”, ottimamente accolto dalla critica d’oltreconfine, e da ultimo finalista del premio dell’Association québécoise des critiques de théâtre 2015-2016.

Ora Deflorian/Tagliarini hanno presentato, nel cartellone di Romaeuropa, “Il cielo non è un fondale”: ancora una volta una produzione internazionale, per un lavoro che è cresciuto anche attraverso alcuni momenti laboratoriali condivisi. In scena troviamo, oltre agli autori, due attori che danno ottima prova di sé: Francesco Alberici e Monica Demuru.

I quattro si presentano in un palco scarno, privo di scenografia, eccezion fatta per un fondale nero: il cielo del titolo, è subito evidente, è parte di un panorama mentale, in cui nessuna qualità (l’azzurro, in questo caso) va data per scontata e se ne sta, quietamente, al suo posto.
Tagliarini comincia a raccontarci un suo sogno, ma quasi subito la Deflorian e gli altri lo sovrastano, entrando nella dimensione onirica altrui per piegarla alle proprie intenzioni, alla propria esigenza di raccontare e raccontarsi.
Lo sfondo della finzione diventa protagonista, senza ridursi alla solita e allappante ironia metateatrale, ma influenzando e deviando i percorsi mentali dei quattro: il testo disvela presto la sua trama di monologhi interiori costretti ad esteriorizzarsi, forzati al dialogo, oppure – grazie alle qualità vocali di Demuru – al canto. Il recitato è spontaneo, privo di orpelli e lirismo, dosato con la sprezzatura di chi sa bene qual è lo stile con cui vuole esprimersi.

Mentre le scene evocate dagli attori si diramano nella toponomastica romana, il testo si riempie di una qualità che non so definire con una parola migliore di «intelligenza», nel senso più etimologico del termine: saper leggere davvero dentro le situazioni, astratte o concrete, invece di accontentarsi delle rappresentazioni a cui ci siamo abituati. Un’intelligenza, per così dire, intramata, cioè non limitata ad episodi testuali brillanti, ma materia stessa del testo, che non di rado ti fa quasi sentire in difetto per non aver mai pensato a certe cose. Perché è proprio vero, come dice la Deflorian, che se amiamo una canzone perché ci fa venire in mente qualche ricordo, quando quel ricordo arriva ci distraiamo immancabilmente dalla canzone: ed è una piccola condanna.

A proposito di canzoni, riflette bene lo spirito di questo spettacolo il brano “La domenica” di Giovanni Truppi, che viene usato più volte e in forma diversa, con quel suo squadernato cantato, da luna storta ma lucida, lucidissima: alla Tricarico, per intenderci. E chissà se il videoclip della canzone (vincitore nel 2013 del Premio Italiano Videoclip Indipendente), sia per i suoi spaccati veloci di vita domestica e urbana, sia per il montaggio spezzato, che procede per accostamenti veloci e diretti, non possa aver avuto un’influenza anche sulla struttura drammaturgica di “Il cielo non è un fondale”.
Durante lo spettacolo, gli attori chiedono al pubblico di chiudere gli occhi per alcuni secondi: un escamotage non pensato di certo per coprire i cambi di posizione sul palco (molto veloci, vista l’essenzialità scenica) ma che piuttosto coinvolge le palpebre dello spettatore nello stesso meccanismo drammaturgico approntato da Deflorian/Tagliarini, che apre e chiude gli occhi su singole visioni.

È importante notare, però, come il “fondale” del titolo rimandi ad un forte elemento di continuità in un testo che per il resto rinuncia, com’è evidente, alle linee narrative: cioè al fondale silenzioso e intangibile degli ultimi, degli emarginati. È con loro che tutti i personaggi dello spettacolo cercano – vale la pena di notarlo, vista l’ambientazione romana: in curioso accordo con lo spirito giubilare di Francesco – una relazione, una solidarietà. Ma anche in questo il testo stupisce per le prospettive originali che riesce a trovare, mai riconducibili alla semplice contrapposizione tra indifferenza e apertura. Il venditore di rose con cui Alberici è contento di parlare, ad esempio, può diventare un nemico se non si piega al paternalismo; ma proprio il personaggio interpretato da Alberici, in apparenza il più duro, sembra in fondo il più torturato dal rovello degli altri.

Del resto Deflorian/Tagliarini mostrano di saper maneggiare benissimo quelle che, come dice Truppi nella canzone, «sono cose brutte da dire, ma sono cose vere». Però neanche le cose brutte, le aporie, diventano un totem, perché l’intelligenza degli autori implica il non appigliarsi a nessun tipo di sicurezza e di refrain del pensiero. Il testo non si appoggia mai, e sarebbe tanto più comodo farlo, ai grumi dell’incomunicabilità. Perché magari è vero che le parole, così fluenti in altri contesti, sembrano bloccarsi proprio quando vorremmo stabilire un’empatia con l’altro, col diverso: c’è un vetro tra noi e quella donna con lo sguardo perso nel parco di via Arenula, ci separa, e non è un vetro fatto semplicemente delle nostre colpe di privilegiati; è fatto di limiti quotidiani, granelli incolpevoli – limiti della vita, non nostri. Però, se lo accettiamo, se non ci lasciamo immobilizzare dalla constatazione, possiamo comunque provare una rincorsa; e magari il vetro si rompe. Il pregio del testo è dire tutto questo senza dover calcare nulla, gettandolo con naturalezza allo spettatore.

Una naturalezza guadagnata pure attraverso dei riuscitissimi abbassamenti di registro, dosati armonicamente, come fossero le terze minori in un accordo musicale (il plantare da rinfrescare, ogni tanto, in lavatrice). Merito anche di una raffinata sensibilità linguistica, di antenne capaci di captare mode e nuance del parlato urbano, come quando la Deflorian apprezza la rituale differenza che corre tra una birra… e una birretta. E non sarà un caso se il tempo verbale dominante nel testo è l’imperfetto: una delle modalità verbali più elastiche e indefinibili, tipica della narrazione e della cronaca, ma anche del fantastico e dell’irreale, delle fiabe («C’era una volta…»), dei giochi da bambini («Facciamo che io ero Superman») e del racconto dei sogni («Poi mi ritrovavo nella casa al mare»). “Il cielo non è un fondale” si muove proprio – con apparente scioltezza – fra tutti questi piani: giocando col tempo, coi tempi.

Non sembra esserci soluzione di continuità, allora, quando si entra nella parte più divertente dello spettacolo, cioè quella autobiografico-domestica in cui la Deflorian si prende la scena. Il panegirico del termosifone di ghisa si alterna alla parodia delle proprie ambizioni da attrice, e i due autori ci mostrano come sia possibile usare un repertorio da Zelig (la scena della spesa al supermercato) per ottenere una comicità raffinata, se lo si fa con tecnica e consapevolezza.

Manca, nell’ultima parte dello spettacolo, il tentativo di una sintesi, e forse sarebbe troppo facile dire che questa noncuranza nello sciogliere i nodi e raccogliere i rivoli sparsi (così brillanti, così pieni) sia voluta. È vero: in questa frammentazione c’è sicuramente mestiere, c’è quella capacità – non estranea alla furbizia – di rendere fluide anche le idee isolate. Ma parte della forza del testo sta anche in questo, nell’esporre oltremodo la sua nudità.

Viene in mente Pasolini e quello che poteva intendere quando parlava di Teatro di Parola, immaginando un rito culturale, un dialogo condiviso. Deflorian e Tagliarini ne danno, forse inconsapevolmente, una delle migliori attualizzazioni. Perché “Il cielo non è un fondale” è un vero e proprio studio, e una lucida auto-analisi, dei percorsi mentali dell’urbanità contemporanea.

Il cielo non è un fondale se diventa punto di vista, capacità cioè di osservarsi da fuori, in terza persona, imparando a riconoscere le nenie che l’ “io obeso” ci canta per garantirci ottuse comodità. Lo si potrebbe chiamare perfino teatro filosofico, come può esserlo quello – con diverse strategie – di un altro duo italiano, cioè Carullo/Minasi.

Quando le luci si abbassano, il teatro applaude convintamente; eppure, sul momento, questo non è uno spettacolo che ti conquista. Fa ridere, sì, è recitato alla perfezione, dà quel senso di pienezza del montaggio drammaturgico ben fatto, in cui non trovi niente da cambiare. Ma, a parte l’immagine finale, i divertenti virtuosismi vocali della Demuru o l’autoironia della Deflorian, non ci sono scene che apparentemente s’incastonano nel ricordo. Eppure, e proverò a dirlo evitando la solita metafora del vino che invecchia, siamo di fronte al classico testo che nei giorni successivi lavorerà dentro allo spettatore con silenzio e sollecitudine, proprio grazie a quell’intelligenza di cui dicevamo: è la capacità di sguardo, l’acume su noi stessi e sugli altri, che questo testo prova a trasmetterci per osmosi. Non a caso tra le fonti dichiarate di questo lavoro c’è “La società della stanchezza” di Byung-Chul Han.

Come ha scritto Mireille Descombes in Francia, sull’Hebdo, “Il cielo non è un fondale”, pur non appoggiandosi mai a musiche tonitruanti o ai tanti stratagemmi che possono servire a dragare l’emozione, sa sedurre: non soltanto per l’intelligenza, la profondità e il rigore, ma perfino per la sua aridità. O meglio: per come sa rappresentare le zone aride nella flora dei nostri pensieri quotidiani; un po’ come faceva quel matto di Joyce frugando nella testa di Leopold Bloom, rivoltando la letteratura di ogni epoca semplicemente mostrando (avendo il coraggio di mostrare) per quanto tempo il pensiero si riduca solo ad un monologo sui rognoni di castrato.

Ma il finale scelto da Deflorian/Tagliarini sembra credere nella speranza, semplice, che la tenerezza provata per le nostre piccole cose (ognuno ha la sua «piccola cosa») possa essere portata fuori, condivisa, regalata alla città, che magari riscalderemo tutta intera con i termosifoni (nel sogno della Deflorian non è stato ratificato il Protocollo di Kyoto). E chissà, magari è per questo che il cielo non è un fondale, ma uno spazio in cui gli elementi tessono le loro relazioni e – forse – prima o poi si evolvono.

Il cielo non è un fondale
Di Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
Con Francesco Alberici, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini
Collaborazione al progetto Francesco Alberici, Monica Demuru
Testo su Jack London Attilio Scarpellini
Assistente alla regia Davide Grillo
Disegno luci Gianni Staropoli
Costumi Metella Raboni
Costruzione delle scene Atelier du Théâtre de Vidy
Direzione tecnica Giulia Pastore
Accompagnamento, Distribuzione internazionale Francesca Corona
Organizzazione Anna Damiani
Produzione Sardegna Teatro, Teatro Metastasio di Prato, Emilia Romagna Teatro Fondazione Coproduzione Odéon – Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Romaeuropa Festival, Théâtre Vidy-Lausanne, Sao Luiz – Teatro Municipal de Lisboa, Festival Terres de Paroles, théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse
Sostegno Teatro di Roma
Collaborazione Laboratori Permanenti / Residenza Sansepolcro, Carrozzerie | n.o.t / Residenza Produttiva Roma, fivizzano 27 / nuova script ass. cult. Roma
Foto © Valerie Jouve
Gallery © Elizabeth Carecchio

durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 3′ 20”

Visto a Roma, Teatro India, il 24 novembre 2016
Prima nazionale

stars-4.5

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