Assistendo a Milano ad “Amleto+Die Fortinbrasmaschine”, la nuova avventura teatrale di Roberto Latini, il cui debutto era avvenuto durante l’ultimo Festival di VolterraTeatro, non possono che venirci in mente, con brivido di rapimento, le vibranti parole che, dall’alto del Castello di Lari, lo scorso luglio, si riverberavano nella valle sottostante sul calar del sole.
La voce dell’artista si librava nell’aria annunciando l’arrivo dei Giganti della Montagna, i signori del regno in cui giunge Ilse con i suoi compagni di ventura, simbolo della Poesia bistrattata.
Bastava la sua voce, senza nessun altro marchingegno scenico, a farci immaginare tutto: la loro misteriosa essenza, il loro potere, le suggestioni che evocavano…
Latini, autore di un teatro molto personale, unico in Italia, di grande e viva forza intellettuale, ha fatto della propria voce – urlata, microfonata, riverberata, sussurrata, cavernosa, robotica, scardinata – il cardine portante di ogni suo spettacolo.
Dopo averci regalato tutte le suggestioni possibili intorno ai “Giganti della Montagna”, capolavoro estremo di Pirandello, ora in “Amleto+Die Fortinbrasmaschine” pone la sua attenzione sulla più celebre opera scespiriana, restituendo, questa volta attraverso una macchina scenica complessa e mirabolante, tutte le sollecitazioni che gli offre il drammaturgo tedesco Heiner Müller che, dal capolavoro del bardo, aveva tratto alla fine degli anni Settanta “Die Hamletmaschine”, “La macchina di Amleto”, qui diventata “Die Fortinbrasmaschine” ossia “La macchina di Fortebraccio”. Con un rimando al nome della compagnia di Latini che, con felice intenzione, si ispira proprio al personaggio dell’Amleto, a quel Fortebraccio sempre aleggiato nella tragedia, ma mai effettivamente presente, se non dopo la morte del Principe, pur risultando alla fine unico vincitore, vivo, tra i morti.
Da Müller nella “riscrittura della riscrittura” di Amleto, attuata con Barbara Weigel, Latini trae la struttura in capitoli, ridefinendola poi nel medesimo modo, facendone cioè “macchina” in grado di riportare nel presente la biografia di un personaggio che rappresenta, ancor oggi e in modo profondo, tutte le contraddizioni dell’essere umano.
Müller, spiega Barbara Weigel, “ha visto Hamlet e Ophelia come delle macchine-mito. Ha liberato i personaggi in un movimento poeticamente autonomo, li ha collocati oltre il testo di Shakespeare, in uno spazio visionario nel quale la loro tragedia poteva diventare ancora concreta e tangibilmente parte della nostra storia recente […] Noi quindi ci inseriamo nella serie delle evocazioni, trovando un Hamlet oggi consapevole della sua vita di palcoscenico. […] Immaginiamo un Amleto che ha smesso di stare in riva al mare a parlare alle onde, con alle spalle le rovine d’Europa già percepite da Heiner Müller, mentre uno dei figli di Ecuba, Polidoro, vittima innocente anche lui di vendette nefaste, viene dal mare per approdare a quelle stesse coste”.
Latini, erede indiscusso di Carmelo Bene, di cui non a caso cita l’“Hommelette for Hamlet”, si muove qua e là sulla scena come un vero e proprio fool, evocando Yorick, il buffone di corte, il cui cranio Amleto trova nel cimitero di Elsinore.
Aiutato in modo consistente dalle luci di Max Mugnai e dalla potenza compositiva di Gianluca Misiti, autore di musiche in cui sapientemente vengono miscelate sonorità elettroniche a suoni evocativi, Latini propone un omaggio composito e affascinante in onore del principe di Danimarca.
Sorretto anche dai movimenti di scena inventivi di Marco Mencacci, eccolo all’inizio su una pedana occhieggiare al teatro Kabuki, una pedana che subito poi diventa un’altalena sospesa, legata da magneti al cielo scenico, e collocata dentro un gigantesco cerchio luminoso, cangiante, al cui interno si appende per le braccia come un trapezista.
Naviga a pieno vento nel mondo di Amleto, il nostro attore/atleta, sempre pronto a mascherarsi, in un continuo andirivieni di congegni e apparizioni, in cui il tempo è sottolineato da una spada che da sempre segna il suo destino, e dove un’Ofelia in abito bianco rimanda alla Marilyn di “Quando la moglie è in vacanza”, anch’essa vittima sacrificale di un potere per lei troppo forte.
Ma lo spazio scenico è una vera e propria festa di continue citazioni, non sempre facilmente leggibili, che rimandano alla sua avventura, mai stata però così umana: da “Blade Runner” a Verdi, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani al Pater Noster, passando per Ecuba, Lady Macbeth, Desdemona e Otello.
Ovviamente c’è anche l’“Essere o non essere”, recitato, questo sì a voce nuda, come un uomo qualsiasi, perché ora Amleto non è più un’icona su cui riflettere, ma un nostro vicino di casa, che conosciamo da tempo in tutte le sue declinazioni.
AMLETO + DIE FORTINBRASMASCHINE
di e con Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci e tecnica Max Mugnai
drammaturgia Roberto Latini, Barbara Weigel
regia Roberto Latini
movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri, Lorenzo Martinelli
organizzazione Nicole Arbelli
foto Fabio Lovino
produzione Fortebraccio Teatro
in collaborazione con:
L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
ATER Circuito Regionale Multidisciplinare – Teatro Comunale Laura Betti
Fondazione Orizzonti d’Arte
con il contributo di MiBACT, Regione Emilia-Romagna
durata: 1h 10′
Visto a Milano, Teatro Litta, il 29 gennaio 2017