Il Macbettu di Teatropersona. Shakespeare nelle lande della Barbagia

Photo: Alessandro Serra
Photo: Alessandro Serra

In scena non la vediamo. Eppure ne percepiamo l’antico fascino esoterico: il paesaggio calcareo di rupi e falesie; i sentieri aspri, polverosi e scoscesi; la natura generosa e selvaggia; le genti inafferrabili, con i loro riti, le loro sagre e le loro processioni.
È la Barbagia l’ambientazione di “Macbettu”, tragedia “semiseria” di recente in scena al Teatro dell’Arte di Milano.

Alessandro Serra e Teatropersona vincono una sfida ai limiti dell’improponibile: quella di trasferire il “Macbeth” di Shakespeare dalla Scozia medioevale a una Sardegna atemporale. È un dedalo complesso, tra canyon, menhir, tombe di giganti e villaggi nuragici. In questo mondo di guerrieri e pastori, domina l’universo virile. Alla maniera del Bardo, anche qui i pochi ruoli femminili sono affidati ad attori maschi (Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino).

Emerge sottotraccia una natura ferina e belluina. L’allestimento di Serra sprigiona il sottosuolo della comunità nuragica, con le sue vibrazioni e le sue interiorizzazioni collettive. Sono gli sguardi, le posture, i gesti, i portamenti impettiti dei protagonisti a tratteggiare una comunità.
I personaggi sono rappresentati nella loro magnificenza indecifrabile. In quest’universo fumoso, arcano, affiorano pallidi bagliori lunari a segnalare presenze evanescenti.

Nell’oscurità imperante, il dramma è scolpito da una lingua acre e spigolosa che si perde in un passato ricco di mistero. Nella traduzione di Giovanni Carroni, “Macbeth” diventa essenza simbolica e polifonica, pura musicalità labirintica. Tutto è coralità di voci, suoni, movimenti. I passi sono solenni. Oppure i personaggi si agitano come forsennate trottole semoventi, assecondando le coreografie di Chiara Michelini.

Il nero, il fumo, i costumi che nascondono quasi integralmente le fattezze dei personaggi, evocano il senso costante delle forze soprannaturali che operano dietro tutte le azioni umane e pervadono questa tragedia: non solo le profezie e le apparizioni, ma la tensione e lo stupore continui, il ripetuto interrogarsi dubbioso, il tremore e il terrore, la qualità portentosa degli eventi, coinvolgono la natura, quasi il dramma consistesse in un urto tra i due mondi.
Il sardo – più criptico dell’inglese – è lingua catartica e misteriosa, espressione di un culto atavico. Si susseguono suoni di campanacci, sibili, colpi secchi, brusii, mormorii, ronzii. Ne deriva un paesaggio sonoro ipnotico, che trasporta lo spettatore in una dimensione aliena.

Convivono in quest’opera il libero e il servo arbitrio. Aleggia, persistente, il senso del peccato. Sullo sfondo di questa fede pagana non c’è traccia di cristianesimo. È una spiritualità panteista dominata dal culto della natura. Coesistono gli opposti: l’astratto e l’iperrealista, il carnale e l’immateriale. I costumi tipici abbinano il bianco delle camicie al nero del vestito. Sono, in qualche modo, allegorie di questa compresenza di contrari.

Un enorme quadrato metallico come un menhir domina in profondità la scena. Si compone di tre lunghe strutture metalliche, che fungono da fondale e da mura del castello, per poi diventare spalti e porte, tavoli del banchetto e alberi della foresta, elementi coreografici di supporto ai movimenti alchemici delle streghe.

A introdurre questa Barbagia atavica, una sarabanda di suoni della natura: mare, vento, pioggia crescente. Polvere, fumo, nebbia.
Le streghe sono dei monaci bruni dal volto nero, calati da un aldilà tetro: ne portano con sé l’alone. Sono creature buffe, curve, sgraziate. Sono parche dalle voci stridule, folletti dall’incedere grottesco. Le lunghe vesti scure, lo scialle nero e il fazzoletto in testa, si trasformano in megere con tanto di scopa, quando ramazzano la mensa intrisa di frammenti di pane carasau, in un cambio scena di forte impatto visivo.

È un Alcázar di creature subdole, avvolgenti, insinuanti, che manifestano il loro lato animalesco. Quanto più immateriale è la scenografia, tanto più viscerale è la presenza umana (efficacissima la prova di tutti gli attori in scena). Il massimo della spiritualità convive con il massimo della bestialità. Sentiamo urli, guaiti, grugniti di maiali sgozzati, ronzii insistiti di mosconi. I suoni riecheggiano, si comprimono, si dilatano.
È un Macbeth equilibrato e divertente. Gli stacchetti demenziali delle streghe, oltre a conferire leggerezza alla pièce, ammoniscono che persino di fronte agli abissi della coscienza, alla profanazione, agli eccessi tragici del male, vale la pena di custodire il lato semiserio delle cose.

MACBETTU
di Alessandro Serra
tratto da “Macbeth” di William Shakespeare
con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino
traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
musiche: pietre sonore Pinuccio Sciola
composizioni pietre sonore Marcellino Garau
regia, scene, luci, costumi Alessandro Serra
foto Alessandro Serra
produzione Sardegna Teatro e Teatropersona
con il sostegno di Cedac Circuito Regionale Sardegna, Regione Toscana Sistema regionale dello spettacolo dal vivo
si ringraziano i Comuni di Palau e Carbonia

durata: 1h 30’
applausi del pubblico: 3’ 10”

Visto a Milano, Teatro dell’Arte, il 26 maggio 2017

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