Sono dei ramponi puntati contro, oppure dei cannocchiali che si dipanano da lui quelle canne che, a raggiera, stanno sospese intorno a Corrado d’Elia, alle prese con la narrazione di “Moby Dick”?
E che storia è mai questa, che parla di morte e ossessione, dolori e ferite, in un momento insensato in cui le balene rimandano a rituali giovanili distruttivi d’alienazione e masochismo?
Certo è che anche una storia dai connotati malefici come il capolavoro ottocentesco di Hermann Melville contiene i germi della meditazione e della catarsi, laddove la cronaca della “blue whale” si manifesta come brutalità ottusa e senza riscatto. È questa la forza della letteratura: esorcizzare il male attraverso la riflessione.
Protagonista di “Io, Moby Dick”, cui d’Elia dedica il suo ennesimo “album”, è la hybris, l’orgogliosa tracotanza che porta il protagonista a presumere del proprio potere e destino e a ribellarsi contro l’ordine costituito. Immancabile segue la punizione divina.
Qui c’è anche la solitudine di un uomo divorato dalle proprie passioni: il mare, la caccia, la sfida, la vendetta. Il folle volo di Achab all’inseguimento del possente e maligno mostro marino è pura empietà. Nulla di paragonabile alla sublime, insaziabile sete di conoscenza che condusse l’Ulisse dantesco a violare i limiti imposti all’uomo dalla natura.
Eppure, attraverso il racconto di d’Elia, scalzo, di bianco vestito, riusciamo a essere se non indulgenti, almeno comprensivi verso le ossessioni di Achab. Le umane perversioni e fragilità conducono lui a perdere se stesso, la propria anima e l’intero equipaggio, mentre noi ci fermiamo a riflettere sulle nostre insensatezze.
Achab animale di mare, d’Elia animale di palcoscenico: entrambi titanicamente soli e magnificenti, su una nave o sul palco. Il legno del Teatro Litta pare oscillare anch’esso in mezzo alla tempesta. Lo sfondo è nudo, nero: interminabile notte senza stelle. Nello sterminato oceano la solitudine è abissale più del ventre di una gigantesca balena.
La bussola di Achab è nella sua testa, nella forza distruttiva di una passione iniqua; la bussola di d’Elia è nel mestiere, nel contatto che sente con il palco e con il pubblico.
In Melville il tempo si dilata. Il clima d’attesa è snervante. Ogni riduzione drammaturgica contiene l’insidia di banalizzare il testo letterario inseguendo i tempi di uno show. Ma d’Elia il tempo lo domina, e dà spessore agli attimi del romanzo sospesi nel vuoto. La drammaturgia qui non è sintesi ma condensazione e simbolo.
La passione artistica di d’Elia incrocia la possessione demoniaca di Achab. È energia che brucia e fa volare il tempo.
La portata filosofica del capolavoro di Melville rimane intatta. Rimane inalterata la forza dei sentimenti di Achab, il potere che ha d’ipnotizzare l’equipaggio. D’Elia lo emula, fa parlare Achab in prima persona, disattendendo anche in ciò il testo originale.
Achab elettrizzato, posseduto, borioso ed empio come Prometeo, Ulisse, Faust. Achab, autodistruttivo: qui è un David lanciato a kamikaze contro Golia.
Moby Dick, la balena a lungo attesa, è un fantasma evocato dalla musica secentesca di Giulio Caccini, ripetitivo leit-motiv delirante. È una liturgia che procede a ondate. Moby Dick si materializza nel finale. La sua bianchezza è ineffabile metafora di realtà insondabili per la mente umana. Quando compare, la platea si rischiara di luce sinistra. Il sonno della ragione genera mostri. I mostri nitidi sono ancora più terrifici.
Un senso mistico e profondo di solitudine pervade il protagonista, rimbalzandone sulla platea il dilemma. Achab non si capacita delle proprie ossessioni, ignora il senso delle proprie scelte. Ognuno è posseduto da ciò che gli manca. Il cerchio che inghiottì Ulisse qui è voragine che divora Achab, i suoi assilli, il suo equipaggio, in un indistinto abbraccio mortale.
«L’unico proprietario di qualcosa è colui che la domina», affermava Achab impettito. Qui però a dominare è la passione feroce e letale: il male con il suo afflato seduttivo; il mare con la sua minacciosa tranquillità.
A sovrastare il tutto è il teatro, cui d’Elia offre, voce, vigore e talento narrativo nell’essenzialità rigorosa di una messinscena spoglia. Dove signoreggia il potere della parola.
IO, MOBY DICK
progetto e regia di Corrado d’Elia
liberamente ispirato a “Moby Dick” di Hermann Melville
con Corrado d’Elia
assistente alla regia Federica D’Angelo
ideazione scenica e grafica Chiara Salvucci
luci Marco Meola
audio Gabriele Copes
foto di scena Angelo Redaelli
collaborazione alle ricerche bibliografiche Alessandro Sgamma
produzione Compagnia Corrado d’Elia
durata: 1h 5’
applausi del pubblico:3’
Visto a Milano, Teatro Litta, il 6 giugno 2017