Kalakuta Republik. La danza africana di Coulibaly s’ispira alla vita di Fela Kuti

Kalakuta Republik (photo: Doune)Kalakuta Republik (photo: Doune)
Kalakuta Republik (photo: Doune)

La prima italiana di “Kalakuta Republik” anima la settima serata del Torinodanza Festival (in corso a Torino fino al 1° dicembre), dove un discreto pubblico assiste ad un lungo e complesso spettacolo di danza contemporanea di provenienza africana, suddiviso in due parti ed interpretato da sette danzatori.

Il coreografo Serge Aimé Coulibaly è nato e si è formato in Burkina Faso, pur avendo in passato collaborato anche con Alain Platel e Sidi Larbi Cherkaoui, due tra i più influenti coreografi della danza contemporanea.
Per la realizzazione di quest’opera Coulibaly si è ispirato al poliedrico musicista nigeriano Fela Kuti, attivista per i diritti umani, rivoluzionario e personalità di spicco della cultura africana. Il titolo dello spettacolo fa riferimento alla comune che quest’ultimo fondò nel Mushin, un’area dello stato di Lagos, nella Repubblica Federale della Nigeria, e che battezzò Kalakuta Republik per rievocare la città indiana di Calcutta, ma anche il nome di una cella in cui fu rinchiuso come prigioniero.
La “Repubblica di Calcutta” si dichiarò indipendente dal governo nigeriano nel 1974, ma dopo l’uscita del suo disco “Zombie”, esplicitamente critico verso i modi brutali adottati dall’esercito nigeriano, la comune fu rasa al suolo dagli stessi soldati, che vollero vendicarsi contro il successo dell’album. La madre di Fela Kuti fu gettata fuori da una finestra e morì qualche giorno dopo.

La danza di Coulibaly si fa dunque interprete della figura del controverso artista ed attivista, che ebbe un ruolo centrale nella cultura e nella politica africana del Novecento. Lo spettacolo restituisce una densa ode a Fela Kuti, a tratti esultante, a tratti drammatica, come fu la stessa vita del nigeriano, alternando a forti rivendicazioni politiche, toccanti richieste di aiuto.

I sette danzatori, dipinti con del colore in volto, attraversano diverse scene intrecciate in una drammaturgia ricca ma non lineare. Ora insieme ora separati, ora in coro ora in solo, qualcuno accenna una canzone, qualcun’altro pronuncia dichiarazioni contro il sistema. La provocazione “io un giorno sarò il presidente di questo Paese” riecheggia ostinata in diverse lingue: non a caso Fela Kuti era anche conosciuto con lo pseudonimo di “The Black President”.

La scenografia muta nei due tempi in cui è suddiviso lo spettacolo: dapprima una sorta di foro, di luogo condiviso e domestico si trasforma poi in un caotico club, forse reduce da una festa disordinata.
Le componenti invariabili sono un logoro divano arancione, sfondo di azioni tragiche e violente, un tappeto azzurro lungo e sottile (che contorna il proscenio come un sinistro red carpet), e due teli bianchi su cui si succedono videoproiezioni.
“Senza una storia diventeremmo pazzi”, “c’è sempre bisogno di un poeta”… sono alcuni degli slogan, proiettati in inglese, che separano e motivano in parte le scene. Il tutto viene scandito e ritmato dalle infuocate composizioni di Fela Kuti, che alimentano e valorizzano i movimenti dei danzatori, ma che sono a loro volta potenziate e celebrate dalla coreografia stessa. Tra etica e decadenza il racconto biografico si fa sovente ambiguo, in virtù di quella prassi narrativa spesso astratta che è propria della danza.

Come l’afrobeat del musicista nigeriano – genere di cui è considerato il fondatore – univa alla cultura musicale della tradizione africana quella jazz e funk americana, così lo spettacolo di Coulibaly si offre come territorio di incontro di stilemi coreici africani ed occidentali, restituendoci una sorta di “afro-teatro-danza” come è nelle intenzioni della sua Faso Danse Théâtre, compagnia sì di danza, ma anche spazio aperto all’incontro, alla riflessione e alla ricerca sull’arte contemporanea in Africa come espressione di impegno e volontà di sensibilizzare il pubblico su temi sociali.
Il coreografo burkinabé conferma che una coreutica apolide non esiste, e invita a confrontare la provenienza africana sua e di Fela Kuti (peraltro non facilmente sovrapponibili in quanto del Burkina Faso il primo e della Nigeria il secondo) con quella europea, nella quale e per la quale è originata l’opera.
Teatro, musica e politica sociale si intrecciano così in uno spettacolo che non si chiarisce mai fino in fondo, ma che conserva una certa intoccabile intimità, proprio grazie alla scelta di rimanere ermeticamente suscettibile di più interpretazioni. Se la domanda che si pone Coulibaly riguarda la funzione dell’artista nella società, “Kalakuta Republik” la lascia lucidamente aperta, aggiungendo semmai altri dubbi, altre riflessioni, altre domande.

KALAKUTA REPUBLIK
ideazione e coreografia Serge Aimé Coulibaly
creazione e interpretazione Antonia Naouele, Marion Alzieu, Adonis Nebié,
Sayouba Sigué, Serge Aimé Coulibaly, Ahmed Soura, Ida Faho
creazione musica Yvan Talbot
creazione video Eve Martin
drammaturgia Sara Vanderieck
assistente alla coreografia Sayouba Sigué
scenografia e costumi Catherine Cosme
creazione luci Hermann Coulibaly
creazione suoni Sam Serruys

Visto a Moncalieri (TO), Fonderie Teatrali Limone, il 7 ottobre 2017

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