La poesia sporca dei Giuramenti. I giovani selvaggi di Valdoca

Photo: Maurizio Bertoni
Photo: Maurizio Bertoni

Un rombo indecifrabile si produce dietro le quinte e fa rabbrividire.
Per molti è ancora difficile accettarlo, ma l’arte è luogo di impurità. La poesia stessa lo è, pur fingendosi la più eterea fra le muse. Dev’essere dunque una specie di assicurazione di riuscita la constatazione che la poesia scenica di Mariangela Gualtieri è disposta a compromessi. Anzi: lavora di compromesso, del compromesso fa la propria forza, e si costruisce nel lavoro della scena, non prima, a priori. Si impasta con le intrusioni più diverse e riesce a riemergere intatta, priva d’aureola ma screziata di imprevisti bagliori duecenteschi.

Quali compromessi? Innanzitutto quello con la declamazione, tutt’altro che scontata per un testo in versi. Poi quello con la deportazione sopra un palco, fissata a un luogo fisico, condizione altrettanto aliena dallo statuto della poesia che, avanguardie a parte, viene da immaginarsela sciolta da un luogo, quale che sia.
Infine, e come conseguenza, una volta messa in uno spazio, deve fare i conti con ciò che più le è estraneo, il movimento. E quindi con i corpi – corpi di giovani, dodici attori-cantanti-danzatori che la portano in scena, ora in assoli ora in potenti cori, allenati (nella palpabile memoria di Grotowski) nei tre mesi della residenza presso L’arboreto-Teatro Dimora di Mondaino.

Lì è preparato “Giuramenti”, il nuovo spettacolo di Teatro Valdoca esordito un anno fa a Cesena e appena passato al Teatro Vascello di Roma.

Tutti i compromessi possibili, tranne uno, quello con la finzione e con l’affabulazione facile. Niente sottofondi, niente effetti estetizzanti o qualsivoglia tappeto, un solo fondale-tenda illuminato di rosso, pochi oggetti fisici e tangibili in scena, piatti, sgabelli, praticabili, campanelle, legnetti; un sicuro accordo tra le voci, un nobile distacco nella finzione, i costumi e la biacca selvaggi sui corpi degli attori, e sulle palpebre puntini neri che sembrano pupille quando le abbassano.

Ma in “Giuramenti” la parola poetica non è solamente una delle componenti, attrazione di tutte quelle impurità a cui la scena obbliga. È anche contenuto, come il titolo e la plaquette di sala ricordano: il giuramento innalza l’azione a un fine ordinato di comune accordo, espresso in forma verbale, dichiarata, tesa, e insieme è parola sporca perché impegna gli uomini a trasportare “giù” nella vita qualcosa che fa parte dell’ambito elevato del dire. Implica un atto di fiducia superiore (e un ulteriore ritorno al compromesso).

Questa fiducia nella vita è estenuantemente ricordata in “Giuramenti”, e sono i giovani a ricordarla, quei giovani che sembrano avere, nella concezione della Gualtieri, uno sguardo più profondo, tanto indietro quanto avanti. Sembrano avere piedi che sprofondano nella terra per secoli, fino ad avvinghiarsi alle voci dei giovani che sono stati tali prima di loro, da cui traggono la forza per gridare le cose vere e radicali, tornate a splendere dopo una viscerale opera di selezione. Fenomenologia della Poesia: «Che cosa è questo precipitare / in una parte di me / e sentire un punto morbido / un più vivo stare, essere – essere qui»; iperboli: «Io con un bacio / rovescio un impero»; cronache del radicamento e dello sradicamento «…Ciao Safèt, che non ridi mai, / non fai l’amore, eh? / Come fai? Ciao, ciao». Anche a costo di gonfiare le parole oltre la cautela, di sbilanciarsi «…Tutta dentro / un mio bacio si scatena la più forte vita / forte più del più forte impero finanziario»; «Chiedi. Chiedi tanto, osa».

Come una tribù senza tempo, solcano la scena in formazioni di coro o di squadriglie o alla spicciolata, percuotono o sfregano strumenti, vorticano in figure di cerchi scanditi da passi ritmici, roteano persino all’interno di enormi anelli metallici che li inscrivono come uomini vitruviani; ora stanno stesi in sorte di sarcofaghi o triclini minoici, tori al bulino, ora sono proiettati su palchetti a gridare – gridano sempre, perché le loro condizioni non sono trattabili, queste no che non aprono al compromesso – storie di animali e di altri ragazzi in faccia al pubblico. Senza scorciatoie: nel teatro di Ronconi e Gualtieri è tutto vero.

Nonostante la frammentarietà che un testo rapsodico (e per di più a tesi) mette in conto, “Giuramenti” è uno spettacolo corale e unitario, e questa sua duplice forza di realtà di scena e di parola a tratti fa ammutolire, come davanti a un sole improvviso.

Il rombo dietro le quinte è una clava che pare un troncone di radice, battuta contro le ruote di ferro di un carretto da monatto su cui giace un corpo esanime, e le fa risuonare come un tamburo d’Averno: e il gesto e il suono hanno la stessa forza.

GIURAMENTI
regia, scene e luci Cesare Ronconi
testo Mariangela Gualtieri
drammaturgia del corpo Lucia Palladino
con Arianna Aragno, Elena Bastogi, Silvia Curreli, Elena Griggio, Rossella Guidotti, Lucia Palladino, Alessandro Percuoco, Ondina Quadri, Piero Ramella, Marcus Richter, Gianfranco Scisci, Stefania Ventura
cura e ufficio stampa Lorella Barlaam
guida al canto Elena Griggio
costumi Cristiana Suriani
proiezioni Ana Shametaj
collaborazione luci Stefano Cortesi
service audio Andrea Zanella/ Michele Bertoni
costruzioni in legno Maurizio Bertoni
scultura in ferro Francesco Bocchini
produzione Teatro Valdoca
con la collaborazione di L’arboreto-Teatro Dimora di Mondaino, Teatro Petrella di Longiano
con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Cesena,
Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
foto Maurizio Bertoni

durata: 1h 30’
applausi del pubblico: 3′

Visto a Roma, Teatro Vascello, il 24 marzo 2018

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