Un eschimese in Amazzonia: The Baby Walk completa la trilogia sull’identità

Photo: Stefano Vaja
Photo: Stefano Vaja

“La tettonica a zolle della ricostruzione identitaria”: è questo il tema di “Un eschimese in Amazzonia”, proposto a Campo Teatrale a Milano dalla promettente compagnia The Baby Walk.
Già il titolo, citazione diretta dell’attivista Porpora Marcasciano, presidente del Movimento identità transessuale (MIT), si ricollega alle questioni di genere. Il paradossale riferimento geografico rimanda subito alla figura ibrida delle Amazzoni, donne che compivano azioni tipicamente maschili.

Lo spettacolo, che è l’ultimo episodio di una “Trilogia sull’Identità” realizzata dalla compagnia, intende presentare al pubblico la nostra inettitudine al superamento della standardizzazione imposta dalla società, di cui la platea rappresenta un campione. E perché l’operazione possa scuotere gli spettatori, The Baby Walk opera una sorta di straniamento, collocando la rappresentazione in un luogo e in una società idealmente remoti, come per rassicurare il pubblico: tranquilli, non stiamo parlando di voi.

Di fatto l’Amazzonia in scena non c’è. A mancare è anche la trama, appena abbozzata. Siamo fin da subito in una situazione ai limiti del nonsense, resa credibile da una recitazione raffinata e pungente. Un androgino eschimese (Liv Ferracchiati, anche autrice e regista) si trova in Amazzonia e cerca di esprimere davanti a un microfono il disagio di vivere in un ambiente climatico profondamente diverso, metafora che allude a un più generale sentirsi fuori contesto.
Ai monologhi interattivi di Ferracchiati, che a tratti sconfinano nella parodia e nel cabaret, risponde un coro (Greta Cappelletti, Laura Dondi, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli), identificabile nella società autoctona o, più in generale, nella società giudicante, refrattaria alla diversità. Una collettività omologata, tanto da interagire in una sincronia robotica impeccabile e tecnicamente perfetta, sostenuta dal lavoro di Laura Dondi, anche coreografa. I quattro riproducono, con il loro profluvio di domande indiscrete, l’ossessione parossistica del sesso e della sessualità.

Non mancano incisivi riferimenti alla contemporaneità: Britney Spears, “Bim Bum Bam”, “Lady Oscar”. Le notifiche di whatsapp arpionano i singoli spettatori, che immediatamente vengono risucchiati nel presente pulsante della scena. Siamo noi, le ultime generazioni del XX secolo, che viviamo ogni giorno i dubbi e le domande proposte dagli attori sul palco: l’Amazzonia è anche a Milano.

Eschimese si configura come portavoce di libertà, in contrapposizione all’ottusità del coro, che cerca di affibbiargli a tutti i costi un’etichetta. Ma il dialogo tra i personaggi rivela un aspetto che accomuna tutti: anche imporsi di non avere etichette è, di fatto, darsi una definizione.
Il tentativo di Eschimese di fuggire dalla società e di autodeterminarsi di là dai pregiudizi, e il suo fallimento, sono efficacemente restituiti a livello cromatico. In una scenografia super essenziale, spicca il lunghissimo cavo del microfono del protagonista, del medesimo colore blu Facebook delle t-shirt del coro. Non a caso tutti i personaggi finiranno ingarbugliati in quel filo, a ricordarci che facciamo inevitabilmente parte di quella stessa società da cui cerchiamo di scappare.

Nel finale, dopo vaghi riferimenti alla morte, Eschimese si cambia d’abito e inizia a palleggiare, come il suo idolo Oliver Hutton, protagonista di un manga giapponese sul calcio che andava in onda in Italia trent’anni fa. L’evento muta anche il coro, che esce e rientra in scena scisso nei singoli componenti, ognuno connotato da un proprio abito.
Ad ogni ingresso, l’attore di turno racconta la propria esperienza col protagonista, rivolgendosi a lui/lei al passato. Il riferimento ai molti casi di suicidio di giovani gay e trans è intuibile e sensato. La società giudicante ora si fa affranta, ricordando con parole patetiche il protagonista. Perché di fronte alla morte diventiamo tutti dei buoni samaritani? Perché l’esperienza di una perdita ci fa riflettere sulle nostre azioni? La risposta non c’è.
Lo spettacolo va oltre l’intrattenimento: non si esaurisce con la chiamata alla ribalta, ma lancia sul pubblico una scintilla, pronta a cadere sul pagliericcio dei fantocci quali siamo, con le nostre certezze di cartapesta. Si accendono, proiettati sulla platea, riflettori multipli da stadio (bella intuizione di Giacomo Marettelli Priorelli, seppur già vista) innescando una miccia pronta ad infuocarci di dubbi, riflessioni, nuove verità. Sempre ammesso che una nuova pioggia di pregiudizi non venga a spegnere quest’incendio che potrebbe portarci un po’ più in là, oltre.

UN ESCHIMESE IN AMAZZONIA
Testo e regia: Liv Ferracchiati
Scrittura scenica di e con: Greta Cappelletti, Laura Dondi, Liv Ferracchiati, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli
Suono: Giacomo Agnifili
Costumi: Laura Dondi
Luci: Giacomo Maretelli Priorelli
Photo: Piero Tauro
Produzione: Teatro Stabile dell’Umbria, Centro Teatrale MaMiMò, Campo Teatrale, The Baby Walk
In collaborazione artistica con: Residenza Artistica Multidisciplinare presso Caos – Centro Arti Opificio Siri Terni

durata: 1h 05’
applausi del pubblico: 2’ 20”

Visto a Milano, Campo Teatrale, il 29 marzo 2018

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