Il trovatore di Paul Curran: luci e ombre dal Regio di Torino

Photo: Edoardo Piva
Photo: Edoardo Piva

Il Teatro Regio di Torino non naviga in buone acque, e questa non è una sorpresa. Dal (profetico?) crollo della scena della “Turandot” alla fine della scorsa stagione al disastroso bilancio della fondazione, fino alle dimissioni di Walter Vergnano simultanea alla destituzione del direttore musicale Gianandrea Noseda e di quello artistico Gaston Fournier-Facio, il contesto già problematico del teatro ha prodotto come esito una programmazione “all’ultimo minuto” per la stagione 2018/2019, rinunciando ad allettanti titoli precedentemente suggeriti e scegliendone altri oltremodo celebri per alleggerire un prevedibile malcontento del pubblico.
Al di là del fatto che la cassa va rimpinguata, il pubblico (soprattutto il meno rodato) va convinto: così il nuovo sovraintendente William Graziosi e il direttore artistico Alessandro Galoppini ricorrono al piano d’emergenza. Un momento di transizione?

Intanto un primo sentito applauso va agli oltre trecento lavoratori del Regio che denunciano (Mauro Ponzio, ispettore del coro, si fa loro rappresentante) il taglio dei contributi del Fondo Unico dello Spettacolo direttamente dal palcoscenico. Lo sciopero per la prima è stato sventato, ma il rancore e la viva percezione del rischio per l’avvenire dell’istituzione non deve passare sotto silenzio.

Quando il sipario si alza per “Il trovatore” offre un’ambientazione risorgimentale – non una novità: fu già realizzato nel 2005 per il Teatro Comunale di Bologna. Per il regista scozzese Paul Curran un aggiornamento in chiave contemporanea sarebbe stato problematico, così come troppo lontano sarebbe stato il Medioevo suggerito dal libretto di Salvatore Cammarano: meglio il Risorgimento con i suoi fervori e i suoi ideali, che hanno le voci e i volti dei quattro protagonisti, immersi in lunghe tenebre flebilmente illuminate dalle luci seleniche (curate da Bruno Poet e riprese da Andrea Anfossi) che baluginano dietro le nubi. In effetti vi è poca luminosità nella vicenda musicata da Verdi: carceri, roghi, nefandezze. Un buio che regna ma non opprime: è la musica verdiana la scintilla che tremula fino a divampare come incendio.

La scenografia è plastica e dinamica, conferendo così fluidità alle scene; nudi spalti e vuote scalinate accolgono l’incalzare della vicenda, la quale tuttavia a volte si arresta in momenti d’inspiegabile stasi – gli zingari della seconda parte sono come imbambolati e confusi nel loro accampamento – o di licenze non ben chiarite: perché accanirsi in quel modo sulle suore, quando Leonora decide di chiudersi in convento? La mediocrità dei costumi, curati da Kevin Knight, non contribuiscono troppo al risultato visivo del tutto.

Il fulcro narrativo della vicenda de “Il Trovatore” è peculiare di ogni racconto popolare che si rispetti: c’è l’eroe, scalpitante ed animoso, snaturato da incontrollabili passioni, che attraverso l’amore e il dolore ritrova la sua umanità. Così è Rigoletto, con il suo affetto per la figlia; così è Violetta de “La Traviata”, che nel sacrificio conosce la profonda verità del pianto umano. Ma a dispetto del titolo, ne “Il Trovatore” è Azucena ad agitare le fila della storia: la zingara abietta, dapprima inamovibile nella volontà di vendetta, ribadirà fino all’ultima nota che è madre di Manrico e che lo ama di un disperato amore materno. E non stupisce che Verdi, in effetti, volesse intitolarla proprio “Azucena”, omaggiando l’anti-eroina dallo scuro registro vocale.

Il mezzosoprano Anna Maria Chiuri (già Amneris ne “L’Aida” e Ulrica in “Un Ballo in Maschera”) la impersona efficacemente grazie alla passionale presenza scenica e alla fluidità vocale, che conferiscono un’avvincente espressività alla sua interpretazione. Accanto a lei, a trionfare è la Leonora di Rachel Willis-Sørensen (l’aria di sortita “Tacea la notte placida” vibra di calore poetico, senza perdere la sostenutezza del fraseggio), arrivata per la prima volta a Torino, che ha saputo come farsi ben accogliere. La soprano dialogherà ancora con l’arte verdiana ne “I Vespri Siciliani” al Bayerische Staatsoper.

Del quartetto un punto a sfavore va ai personaggi maschili. Il Conte di Luna (il baritono Massimo Cavalletti, ben rodato su Verdi, Donizetti e Puccini) non sembra in splendida forma: la voce è morbida, precisa e raggiunge picchi di buona seduzione, ma è nel complesso poco eloquente in termini di coinvolgimento ed emozione. La poca energia sul palcoscenico, poi, certamente non è d’aiuto. Più comunicativo benché ruvido è Manrico, impersonato da Diego Torre (messicano con cittadinanza australiana, debuttò nel ruolo di Don José nella “Carmen” dei Domingo – Thornton Young Artist all’Opera di Los Angeles); il tono è uniforme (troppo) e sacrifica le oscillazioni espressive di Manrico, nella sua concitazione d’impaziente eroe e trobadour innamorato, nella sua incertezza tra il liuto e la spada. I momenti più convincenti sono senza dubbio i duetti con Leonora, più carezzevoli e trasportati.
Buoni sono i comprimari, da Ruiz (il tenore Patrizio Saudelli) a Ines (Ashley Milanese, soprano), fino a Ferrando (il basso coreano In-Sung Sim), Desaret Lika (un vecchio zingaro) e Luigi Della Monica (un messo), rispettivamente baritono e tenore.
Il cast è alquanto diseguale e non troppo flessibile sotto il profilo interpretativo. Ma dal podio arriva una luce pulita, che si getta con sicurezza nella e con la narrazione, con slancio mai arrogante: la musica si fa strada tra la parola e il gesto, accettando tutte le sfaccettature di una scrittura orchestrale che, febbrilmente, s’inoltra anche nella più piccola strettoia del tessuto musicale. C’è la simmetria, la struttura a numero chiuso, la suggestione del Rossini serio: ma Verdi non sapeva proprio stare con le mani in mano ed evitare di andare ancor più a fondo…

Il direttore Pinchas Steinberg conosce così bene la partitura che poco gli basta per donare allo spettacolo ciò che a tratti gli attori non hanno saputo dare. L’eccellenza del coro di Andrea Secchi corona l’ottima orchestrazione, e si guadagna tutti i plausi, un caloroso ringraziamento per chi risveglia la bella musica, la forza dell’espressione e il prestigio della lirica.

Il trovatore
Dramma in quattro parti
Libretto di Salvatore Cammarano
dall’ononimo dramma di Antonio Garcìa-Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi
Personaggi e Interpreti
Leonora, dama di compagnia della principessa d’Aragona (soprano): Rachel Willis-Sørensen, Karina Flores
Manrico, ufficiale del principe Urgel e presunto figlio di Azucena (tenore): Diego Torre, Samuele Simoncini
Azucena, zingara della Biscaglia (mezzosoprano): Anna Maria Chiuri Agostina Smimmero
Il conte di Luna, giovane gentiluomo aragonese (baritono) Massimo Cavalletti, Damiano Salerno
Ferrando, capitano degli armati del conte di Luna (basso) In-Sung Sim, Fabrizio Beggi
Ines, confidente di Leonora (soprano) Ashley Milanese
Ruiz, soldato al seguito di Manrico (tenore) Patrizio Saudelli
Un vecchio zingaro (baritono) Desaret Lika, Marco Tognozzi
Un messo (tenore) Luigi Della Monica, Alejandro Escobar
Direttore d’orchestra: Pinchas Steinberg
Regia: Paul Curran
Scene e costumi: Kevin Knight
Luci: Bruno Poet
riprese da: Andrea Anfossi
Assistente alla regia: Oscar Cecchi
Direttore dell’allestimento: Paolo Giacchero
Maestro del coro: Andrea Secchi
Orchestra e Coro del Teatro Regio, Allestimento Teatro Comunale di Bologna

durata: 3h 15′

Visto a Torino, Teatro Regio, il 20 ottobre 2018

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