I love my sister: Cosimi e Botteghi sulle forme scomposte

I love my sister (photo: Enzo Cosimi)
I love my sister (photo: Enzo Cosimi)

È inutile: quando la vita viene portata sul palco di un teatro nella forma di un corpo in scena senza mascheramenti, di un personaggio che è in realtà una persona viva con le storie della propria biografia, l’operazione critica si trova sempre di fronte all’impaccio di dispiegare una lunga serie di distinguo, premesse e cautele.

Una persona è sempre degna di raccontarsi, certo, a patto che trovi il raccontabile nell’indistinto marasma della propria esperienza. E la biografia più facile non è quella di una vita troppo comune, bensì quella in cui ci sia un evento forte che indiscutibilmente spicchi tra gli altri.
Bisogna poi parlare della forma: le modalità del racconto devono accordarsi con quel “raccontabile”, farlo emergere, essere – come si dice – la stessa cosa del contenuto, sia pur programmaticamente contraddicendolo.

Il progetto di Enzo Cosimi “I love my sister”, visto al Teatro Vascello di Roma (dove dall’11 al 19 maggio è andata in scena l’intera trilogia “Ode alla bellezza”), si incentra sulla vita e la personalità di Egon Botteghi, transessuale livornese FtoM madre di due figli.
L’esperimento parte bene, perché nella biografia del protagonista c’è precisamente quell’evento cardinale di cui si parlava, e perché il caso specifico rappresenta probabilmente una minoranza di cui poco si sa: il cambio di sesso da femminile a maschile. Inoltre gli strumenti che il regista impiega sembrano davvero rispecchiarsi nella materia, trovandosi a essere in qualche modo l’alter-ego scenico di Botteghi: tanto l’uomo quanto il lavoro sono due corpi in divenire, che hanno scelto (stanno scegliendo?) faticosamente la propria forma, non cristallizzata, difficile, scomposta. Visibilmente problematica nei movimenti e nella vita.

La scena è presto raccontata: cinque stativi con softbox e lampade fredde e uno con microfono, un cubo bianco per sedersi al centro di essi, uno schermo sul fondo, un vecchio tubo catodico, attrezzeria minuta. Le luci in scena devono essere per lo più azionate a mano, e così il videoproiettore e la telecamera per il live che segue le azioni in momenti specifici del lavoro. Vi provvede Stefano Galanti, anche regista dei video, con un agile ma non impercettibile viavai da palco a quinte. È una scena, come si può capire, in costruzione, in cui ogni spostamento è macchinoso, a volte faticoso a vedersi: il videoproiettore necessita di essere a tratti oscurato manualmente, con una veletta nera sopra l’obiettivo, e il vecchio tubo catodico deputato alla proiezione di video ripresi nella quotidianità di Egon, come quello in cui si inietta il testosterone, si rifiuta di rispondere al telecomando, finché un tecnico si palesa a risolvere.
Fin qui questa perfetta aderenza non può che stupire, ed essere doppiamente rivelatoria.

Anche la drammaturgia ha questo carattere di sgraziata imperfezione, con enfiature e zone morte, ma l’effetto di tali scompensi è meno eloquente, ed essi danno talvolta l’impressione di un affastellarsi ingiustificato di piani che occupano lo spazio ma non lo valorizzano: ora una confessione personale, ora un aneddoto, a volte non indimenticabile, poi una registrazione, un ballo scatenato che parte muto, al rallentatore, e si velocizza fino a che il suono non è diffuso in sala.

Le azioni si caricano spesso di un rimando simbolico, come quest’ultima: il microfono amplifica a pro di tutti una musica fino a quel momento solo nelle cuffie del protagonista, e così pare svelare al pubblico qualcosa di estremamente intimo, che esisteva unicamente nella testa di Botteghi. O come la significativa aria di Stradella (“Io, per me, non cangerei / così ferme ho le mie voglie / l’altrui felicità con le mie doglie”), cantata da un controtenore, in un rimando di commistione dei generi tipica dell’ambiguità sessuale dell’opera barocca.
Altre volte però le scelte ricalcano luoghi comuni scenici a cui la scrittura di Cosimi non riesce a dare nuova vita: le unghie pitturate con un smalto rosso, la rasatura del volto come contraltare, i tacchi a spillo calzati a inizio spettacolo, rossi pure loro, la parrucca scagliata via lontano, la svestizione quasi completa come apice di un discorso che, in fondo, gira tutto attorno a questo corpo mutato e pericolante, e che se da una parte è pubblica ostensione di una meta raggiunta, rischia di sembrare una concessione alla curiosità incresciosa del pubblico.
Tali scelte oscillano appunto tra un simbolismo più o meno illuminante e qualcosa come un pegno pagato a luoghi comuni, anche visivi, a un binomio alternativo maschio/femmina che suona spesso datato, o a un cliché di “liberazione” (il ballo scatenato, il canto, l’allocuzione al pubblico) che non rende piena giustizia al protagonista.

“I love my sister” mantiene insomma per tutta la durata questo carattere irrisolto tra aderenza forma /contenuto e una sorta di horror vacui colmato con tante azioni e idee, con cui il drammaturgo, nonostante tutto, non riesce a darci una chiave per interpretare l’incredibile discorso di un corpo che decide di mutare.

I LOVE MY SISTER
ideazione, regia, coreografia enzo cosimi
regia video stefano galanti
drammaturgia video stefano galanti, enzo cosimi
testi egon botteghi e enzo cosimi
performer egon botteghi
video live stefano galanti
organizzazione anita bartolini
produzione compagnia enzo cosimi, MiBACT
con il contributo di Armunia, nell’ambito del progetto a sostegno delle residenze di ResiDance XL – luoghi e progetti di residenza per creazioni coreografiche azione della Rete Anticorpi XL – Network Giovane Danza D’autore coordinata da L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
e con il sostegno in residenza del Teatro Vascello di Roma
lo spettacolo conclude la trilogia Ode alla Bellezza – 3 creazioni sulla diversità
anno di produzione 2018

durata: 60’ circa
applausi del pubblico: 2’

Visto a Roma, Teatro Vascello, il 19 maggio 2019

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