Go go go said the bird. Camille Mutel e un desiderio pulito

Photo: Paolo Porto
Photo: Paolo Porto

Sono in tre nello spazio, su un tappeto da danza quadrato: Camille Mutel danzatrice, coreografa, ideatrice del lavoro, Philippe Chosson, danzatore, e Isabelle Duthoit, che si occuperà della parte vocale. Il pubblico, numeroso, siede su tre dei quattro lati.

Prima parte: lei, Duthoit, ha il respiro timbrato, sempre più sonoro. Man mano assume il carattere di versi preverbali, la nascita e il richiamo di uccelli in amore.
Silenzio. La danzatrice si spoglia.
Lui porta in scena un certo numero di oggetti, tutti neri, dall’aria orientaleggiante. Estrae tre uova da una salvietta. Le intacca, ne trasferisce l’albume in un vaso. Uno per uno accoglie nel cavo della bocca i tuorli (con malcelato disgusto) e li deposita ora nella bocca, ora sulla linea della schiena, ora nell’incavo della clavicola di lei. A tutte queste operazioni sembra sovrintendere Duthoit, come se potesse evocare i movimenti col suono della voce, avvolta nel suo saio di raso nero.

Seconda parte. Si spoglia anche lui. I due tengono stretto tra i ventri, compressi, un vaso trasparente, in cui giace una sorta di gelatina appiccicosa. Ora sono in terra, e cercano di mantenere il vaso sospeso tra loro, e un po’ di quel liquido viscoso tracima sui loro corpi. La voce, intanto, intreccia melodie di suoni gutturali, di false corde vocali, alla maniera del canto a tenores sardo o dei canti dei pastori mongoli, di fischi. Il petto dei due performer è incollato, e ora l’uno batte sull’altro, ripetutamente, e la gelatina si monta, si sbianca, si fa più tenace.

Terza parte. I due si puliscono. Intanto altre due uova sono cavate da un cassettino, stavolta sode. Una è sbucciata. L’altra no. In una rapida gara fra i due performer è l’uomo a vincere e (guarda caso) è lui a poter afferrare l’uovo integro e a inserirlo nel sesso di lei. Quindi in terra, i due, sempre allacciandosi con grande lentezza – ma senza particolare gravità, o tensione – cercano equilibri sulla convessità delle loro schiene, rotolano l’uno sull’altro.

Infine, su una virtuosistica coda vocale i cui acuti, benché turbati dal traffico che circonda l’edificio, si accasano con grande agio nelle volte dell’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano, i due performer raggiungono lentamente il fondo palco. Si trascinano, mani e piedi a terra, piegati all’altezza della vita. Camille Mutel si attarda; deposita, accucciata, l’uovo sul tappeto. Il lavoro si spegne insieme alla voce, nel silenzio.

Questo il racconto di “Go go go said the bird” della Compagnie Li(luo), un esperimento che occupa quel travagliato spazio conteso tra danza, performance, body art, che è andato in scena per la prima volta in Italia grazie alla rassegna di arte, design, danza, fotografia Ō / Tempo di. Curata da Cristiano Leone, porta l’arte in spazi afferenti al Museo Nazionale Romano, dalle Terme di Diocleziano a Palazzo Altemps.

La performance ha una sua innegabile organicità che va oltre l’unità d’argomento («i tre attori, nello scambio erotico della coreografia, sperimentano il desiderio dell’altro e di sé stessi, la ricerca di godimento e soddisfazione impossibile che alimenta gli scambi nelle relazioni umane», recita la presentazione). È un’unità che si verifica su codici più esteriori – ma non per questo meno evidenti.
È nei suoni, privi di un significato verbale ma gonfi di messaggi imperscrutabili, nei colori (il bianco, il nero dei costumi, il rosa dei corpi e del guscio delle uova); è nella qualità opalina della materia organica in scena che si oppone alla freddezza laccata di quella inorganica, il nero degli oggetti inanimati, le salviette, i vasetti, la mensolina dove tutto è riposto, i costumi di tessuto laminato.

Accanto a tale bipartizione della materia fisica, sullo spazio spalancato del palco si dispone una bipartizione del movimento, nel suo carattere e nel suo statuto.
Da un lato il movimento scenico vero e proprio, il racconto del desiderio condotto in un linguaggio avulso, controllato, con una qualità più da set patinato che da viscere d’uomo, e che rischia di fare il paio con tutta la paccottiglia degli oggetti “giapponesi”, tra cui lampeggia, in principio, persino un coltello rituale, in un orientalismo kitsch e un po’ ridicolo.
Dall’altra l’evidenza a tratti straniante di movimenti di servizio, l’asciugarsi attentamente con numerose salviette, lo svestirsi e il vestirsi, la cui trascuratezza – se mina ogni solennità – rivela più carnalità del racconto vero e proprio.

In questa doppia narrazione, doppia materia, doppio tempo scenico, ciò che manca è un affondo vero nella natura dell’argomento centrale, il desiderio. Per descriverne la «soddisfazione impossibile» sembrerebbe necessario se non altro evocarlo completamente, giungere a colmarne la misura, almeno in via preventiva, per poi dimostrarne l’inattingibilità.
Invece tutto ciò riesce a mancare durante l’intero percorso, persino nel momento dell’inserimento dell’uovo, immagine simbolica e sconvolgente di per sé, che però non riesce a detonare veramente.

Rimangono quegli imprevisti, sfuggiti autonomamente al controllo umano, quegli scorci, quelle disattenzioni: un tuorlo che si rompe e dilaga dove non si vorrebbe, i due performer che sul finale attendono in fondo poggiati con i loro corpi nudi e vulnerabili contro la muratura di una nicchia; l’uovo covato e dimenticato sul tappeto, che brilla nel guscio inumidito.

D’altronde basta leggere fino in fondo la citazione di Eliot del titolo. «Go, go, go, said the bird: human kind / Cannot bear too much reality». E ci si domanda se questa autocensura, questo mantenersi al di qua dell’imprudenza, dell’impurezza, della violenza, dello scandalo del desiderio sia una scelta di “igiene” scenica, il frutto di un’eccessiva stilizzazione che doppia l’obiettivo della chiarezza e si riscopre freddezza, o denunci l’agghiacciante oblio della vera carne in cui siamo caduti.

Go, Go, Go said the bird (Human kind cannot bear very much reality)
Conception: Camille Mutel
Danse: Philippe Chosson, Camille Mutel
Chant: Isabelle Duthoit
Lumières et régie: Phil Colin
Photographie: Osamu Kanemura
Costumes: Eleonore Daniaud
Rédaction: Ninon Steinhausser
Production: Compagnie Li(luo)
Coproduction: Centre Culturel André Malraux – Scène nationale de Vandoeuvre-les-Nancy; Scènes Vosges – Epinal
Accueil Studio : CCN Ballet de Lorraine
Résidences : Trois C-L Luxembourg ; CND Pantin ; Royaumont Abbaye & Fondation ;
Centre Pompidou – Metz ; Césaré – Centre national de création musicale de Reims ; Centre Culturel André Malraux – Scène nationale de Vandoeuvre-les-Nancy ; Théâtre Sévelin 36 – Lausanne
Soutiens : Région Grand Est ; DRAC Grand Est ; Spedidam
Autre soutien : Institut Français – Programme Hors les Murs 2014
alcuni contenuti della performance potrebbero urtare la sensibilità degli spettatori
spettacolo non adatto ai bambini

durata: 45’
applausi del pubblico: 1’ 45’’

Visto a Roma, Terme di Diocleziano-Aula Ottagona, il 12 febbraio 2020

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