I Piccoli Funerali di Maurizio Rippa: “Per accarezzare tutti i miei morti”. Intervista

Maurizio Rippa (photo: Azzurra Primavera)
Maurizio Rippa (photo: Azzurra Primavera)

L’anno scorso, in una bellissima chiesa di Ascoli Piceno, in occasione della sesta edizione de I Teatri del Sacro, ci eravamo imbattuti in una curiosa e particolare performance intitolata “Piccoli Funerali”, in cui il contralto maschile Maurizio Rippa donava a una dozzina di esistenze spezzate dal crudele destino un brano musicale di estrazione diversa.
Lo spettacolo terminava poi con gli spettatori che gli si avvicinavano, sussurrandogli all’orecchio il nome del caro estinto a cui dedicare l’ultimo canto, che Rippa intonava con la stessa maestria dei precedenti.
E proprio “Piccoli funerali” è stato tra i protagonisti, qualche giorno fa, della XXXVIII edizione del festival La Notte dei Poeti organizzato dal CeDAC/ Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo in Sardegna.
Maurizio Rippa possiede un curriculum di tutto rispetto, avendo lavorato, tra gli altri, con Carmelo Bene, Armando Punzo, Antonio Latella, Roberto De Simone, Vincenzo Pirrotta, e cantando con direttori del calibro di Alan Curtis e René Clemencic.

Una carriera molto particolare, tra musica e teatro, che ci incuriosisce anche per la dichiarazione assai particolare che Rippa ha proposto nei mesi scorsi e su cui ci piacerebbe indagare.

Maurizio, aiutaci a capire meglio che cosa vuol dire, rispetto a “Piccoli Funerali”, la tua dichiarazione: “Questo è un lavoro su due sentimenti, uno d’amore, l’altro di odio”.
Ho sempre odiato gli addii, soprattutto quelli definitivi, un odio che va oltre la tristezza, che spesso sfociava in rabbia. Andare ai funerali mi ha sempre provocato dolore e rabbia per l’impossibilità di salutare veramente qualcuno che amavo, per la formalità della cerimonia, per come la vita riprendeva subito dopo, quasi come se non fosse accaduto nulla appena finita la cerimonia.
Questo è stato un anno di grandi perdite, una dietro l’altra, uno di quelli che chiamiamo “anno terribile”. Sentivo il bisogno di lavorare su questa rabbia, ma la rabbia non porta a nulla di buono, almeno nel mio caso, e ho pensato che dovevo lavorare su un sentimento totalmente contrastante. Ho pensato al mio lavoro e a cosa amavo di questo. Io non amo particolarmente esibirmi, non amo la performance fine a se stessa, mentre amo dedicare il mio lavoro a qualcuno.
Ogni volta che vado in scena la direzione del mio lavoro è verso qualcuno o verso qualcosa. E’ l’unico modo in cui so andare in scena, esibirmi per mostrarmi mi genera solo ansia da prestazione, e sento tutta l’inutilità di questo lavoro effimero. Ho lavorato quindi su questo; spesso sento dire: “Questo spettacolo è un cazzotto nello stomaco”. Ecco, io volevo lavorare esattamente all’opposto, volevo sentirmi dire “questo spettacolo è una carezza”, perché è questo che vorrei fare quando vado in scena: accarezzare di nuovo tutti i miei morti.

“Piccoli Funerali” ha rappresentato una svolta per te.
E’ nato per la festa di teatro ecologico di Stromboli: luce naturale, nessuna fonica, nessuna scena né costumi. Dovevo fare un lavoro essenziale, semplice, pochi intellettualismi ma molto sentimento. Dovevo e volevo guardare le persone negli occhi, così non potevo mentire, una sorta di nudità dell’anima. Credo che questo modo di andare in scena mi sia molto più congeniale di altri. In un certo senso mi sono fatto un regalo.

Raccontaci il tuo incontro con Carmelo Bene.
Ho conosciuto Carmelo Bene per puro caso, quando ha saputo che ero un contraltista mi ha chiesto se gli facevo sentire qualcosa. Era in teatro a provare, io salii sul palco e cantai a cappella un brano di Vivaldi. Alla fine mi disse: “Voglio registrarti, metterò la registrazione in una cassetta di cose preziose che ho in camera da letto”. Poi aggiunse: “Hai assaggiato il nuovo gelato dell’Algida (forse non dovrei dire la marca)? Vieni con me, andiamo a mangiarlo, è buonissimo”. Queste due frasi caratterizzano il “mio” Carmelo Bene, perché è impossibile sintetizzarlo in una solo descrizione.
Da lì è iniziata quella che posso definire un’amicizia fatta soprattutto di grandissime risate. Era la persona più divertente che abbia mai conosciuto, l’unico vero Genio che ho avuto la fortuna di incontrare. A lui devo moltissimo, come quando mi chiamò per il suo festival nel 2001 ad Otranto e mi commissionò il concerto su Elvis Presley con un chitarrista classico nel fossato del castello, con tremila persone. Ero terrorizzato, mi sentivo inadeguato. Il giorno prima volle sentire il concerto a casa sua, io cantavo davanti a Carmelo e la sua compagna Luisa Viglietti. Lui, in un angolo, senza guardarmi per non mettermi in soggezione, alla fine si alzò e mi diede un bacio. Un ricordo indelebile!
Mi ha insegnato che il microfono non è amplificazione, ma uno strumento, un “modo per allontanarsi da sé”. Mi ha spiegato che leggere al leggio è un atto del presente, che leggere è una azione, non semplicemente un “non ho imparato a memoria e quindi un po’ leggo”; e resto basito quando, come in questo periodo, leggo di attori e critici che descrivono il leggio e le letture come sciatteria o mancanza di memoria.

E l’incontro con Latella, con cui hai lavorato diverse volte?
Ho conosciuto Antonio quando faceva l’attore (bravissimo tra l’altro), quindi molti anni fa, e già ricordo che aveva intuizioni sceniche magnifiche. Ci siamo ritrovati un po’ di anni dopo con “Le Nuvole”, uno degli spettacoli più divertenti che abbia mai fatto. Un enorme senso di libertà che Antonio trasmetteva a noi attori. Ho fatto un po’ di spettacoli con lui, tutti molto diversi, sempre dei viaggi super interessanti.
Quando penso ad Antonio mi viene in mente un treno ipermoderno che viaggia velocissimo. E’ un visionario con una mente velocissima, a volte mi è capitato di comprendere delle scene che ho fatto con lui molti anni dopo.

Come ti poni quando canti sulla scena per uno spettacolo teatrale e invece per un concerto?
Mi piace dire che quando canto penso da attore, e quando recito penso da cantante. Forse perché il disagio di sentirmi non comodo mi aiuta, forse perché sono fatto male. Cantare in uno spettacolo teatrale significa far parte della drammaturgia, quindi si può dover sussurrare, urlare, stonare se necessario. Si deve uscire dai canoni musicali. Trovo questo lato altamente interessante e liberatorio.

Hai in mente altri progetti in cui il tuo canto si mescola con la poesia e il teatro?
Io agisco sempre per necessità, nonostante non ami il termine “spettacolo necessario”, quindi stiamo parlando di necessità mie, e devo dire che ogni volta mi pongo questa domanda: di questa mia necessità può essere interessato qualcuno? La maggior parte delle volte la risposta è negativa, quindi mi astengo. Per ora mi piace molto fare “Piccoli Funerali”, fargli piccole variazioni, nuove carezze.

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