Marino Faliero: Ricci/Forte nella Venezia cupa di Donizetti

Marino Faliero (photo: Gianfranco Rota)
Marino Faliero (photo: Gianfranco Rota)

L’amore per il melodramma, che in questi mesi così difficili causati dall’emergenza pandemica ci è mancato molto, ci ha spinto a gustarlo su orizzonti inesplorati. E’ infatti andata in onda nei giorni scorsi, su RAI 5, in prima assoluta, un’opera poco conosciuta, rivista attraverso l’allestimento di un duo registico, come quello formato da Stefano Ricci e Gianni Forte, che invece conosciamo da diverso tempo.

L’opera in questione è “Marino Faliero” di Gaetano Donizetti, che avrebbe dovuto debuttare dal vivo a Bergamo nel teatro a lui dedicato. Un teatro che è rientrato in possesso della sua città dopo tre anni di intensa ristrutturazione, e che ha dunque riaperto finalmente la sua programmazione, anche se con le particolarità dovute al Covid.
La visione del melodramma di Donizetti è stata quindi doppiamente emozionante: sia perché veder rappresentare per la prima volta un’opera in un teatro appena restituito alla comunità è sempre una cosa meravigliosa, sia perché la sua realizzazione è avvenuta in un clima di intensa commozione, sottolineata alla fine da tutti i partecipanti, che in silenzio si sono presentati davanti alla telecamera piangendo, ben consapevoli dell’assenza del pubblico e del periodo difficilissimo che stiamo vivendo, tra l’altro in una città che ha pagato un prezzo altissimo di morti.

“Marino Faliero” è una tragedia lirica in tre atti su libretto di Giovanni Emanuele Bidéra, tratto dalla tragedia “Marino Faliero” (Parigi, 1829) di Casimir Delavigne, ispirata al dramma omonimo in cinque atti di Lord Byron (Londra, 1821). Venne rappresentato per la prima volta a Parigi, al Théatre des Italiens, il 12 marzo 1835.
L’opera è ambientata nella Venezia del 1355, e pone come protagonista del suo racconto le vicende del celebre Doge che si trova, partecipandovi, al centro di una congiura organizzata da Israele, il capo dei lavoratori dell’Arsenale, suo compagno di molte battaglie, ai danni dell’Aristocrazia, rappresentata dal Consiglio dei Dieci, che regge la città lagunare.
Nella trama grande spicco ha anche la moglie Elena, innamorata di Fernando, nipote di Faliero, più volte calunniata in pubblico dal nobile patrizio Steno, da lei respinto. Fernando, per non compromettere l’amata, decide quindi di allontanarsi dalla sua città. Ma prima che ciò avvenga, durante un ballo mascherato, davanti ancora a un’altra offesa di Steno nei confronti di Elena, Fernando decide di sfidarlo a duello. Nella notte però viene trovato morente dai congiurati che si erano dati appuntamento proprio nello stesso luogo.

Faliero, che spinto dagli insulti di Steno per la moglie ha caldeggiato anche lui la ribellione, vorrebbe vendicarsi dell’oltraggio subito, ma la congiura viene sventata, e il Doge, ritenuto connivente con i traditori, è condannato a morte.
Nella scena finale, prima di essere condotto al patibolo, Marino Faliero perdona la moglie, che gli confessa il suo tradimento.

Un dramma dunque, come si evince, in cui sono presenti, com’è d’obbligo per l’opera, temi amorosi, ma in cui hanno grande spazio anche quelli patriottici (per questo fu molto amata da Giuseppe Mazzini), incentrati sulla lotta tra il popolo, a cui vengono affidate grandi pagine corali, e i patrizi, rappresentati dal Consiglio dei Dieci e dal malvagio Steno.
Famoso è diventato il contesto in cui nacque l’opera, la Parigi dei primi decenni dell’Ottocento, dove avevano trovato ospitalità parecchi profughi italiani di fede mazziniana, e dove i cartelloni del Théâtre Italien, sotto anche l’egida di Gioacchino Rossini, rispecchiavano di rimando questa immagine d’italianità. Nel 1834 vi debuttò l’“Ernani” di Verdi, l’anno successivo “I Puritani”, l’estremo capolavoro di Bellini, e successivamente, con lo stesso formidabile cast (Giulia Grisi, Giovan Battista Rubini, Luigi Lablache e Antonio Tamburini) “Marino Faliero”.
Il paragone tra le due opere fu ovviamente inevitabile e Marino Faliero (dobbiamo dire in verità assai meno convincente della sublime sorella, ma senza farci sentire dai donizettiani incalliti), nel tempo non resse più il paragone con quella di Bellini, uscendo dal repertorio.
Tornò alla ribalta solo nel 1966 a Bergamo. Da notare inoltre che abbiamo ascoltato, grazie al preziosissimo lavoro della Fondazione Donizetti, l’edizione critica della versione parigina del 1835, curata da Maria Chiara Bertieri.

Come detto, non ci troviamo davanti ad un capolavoro, ma comunque “Marino Faliero” è un’opera di interessante ascolto, in cui possiamo cogliere in diversi momenti la grandezza del suo autore e diverse peculiarità che potremo ritrovare in altre opere sue e dei suoi contemporanei, e non di meno delle pietre musicali preziose degne di nota.
In definitiva, un compendio musicale in cui sono espresse tutte le multiformi possibilità raggiunte dal melodramma fino a quegli anni, e non solo.

Ecco per esempio il meraviglioso duetto tra Israele e Faliero, baritono / basso “Se pur giungi a trucidarlo… odio sdegno vi sento vi ascolto… della patria il destino si affretta…”, in cui già pregustiamo lo spirito di Verdi, il duetto Elena e Fernando “Tu non sai, la nave è presta che possiede”, dove si notano già i germi del famosissimo “Verranno a te sull’auree” della quasi contemporanea Lucia di Lammermoor (questo sì, capolavoro assoluto), la Preghiera di Faliero (“Gran dio, che in tua virtù”), il duetto finale tra Elena e Faliero con l’intervento del coro (“Santa voce al cor”), e il coro “Siam figli della notte”.

In tutto lo spazio della platea, attraverso una grande impalcatura di praticabili che formano scale, ponti e ringhiere, Stefano Ricci reinventa in maniera simbolica le calli di Venezia (ma non solo, siamo trasportati anche nell’Arsenale delle navi e di un’opera in costruzione), illuminata suggestivamente dalle luci di Alessandro Carletti, che rimandano ai riverberi dell’acqua lagunare. Qui si muovono, nella parte alta, soprattutto i personaggi principali, vestiti con i costumi sgargianti di Gianluca Sbicca, visibilmente divisi in due strati: la parte superiore damascata ricorda gli sfarzosi costumi dell’epoca, mentre camicie, gilet e scarpe da ginnastica rimandano alla contemporaneità.
Nelle cavità sotterranee più basse si muovono i mimi e le comparse, guidati dalla coreografa Marta Bevilacqua, che creano una specie di melanconico Carnevale, che però non ha nessun connotato di festa, dove ognuno vaga da solo senza mai incontrarsi con gli altri.

La Venezia rappresentata dal dramma è infatti una Venezia cupa, in cui ognuno inganna l’altro, imprigionato nel proprio ruolo come una marionetta, e dove solo Israele dimostra un cuore veramente puro. Il Doge infatti partecipa alla sommossa solo per vendetta, Elena e Fernando sono dei traditori e Steno è un infame.
Solo alla fine, quando tutti i personaggi si riveleranno veritieri nelle loro emozioni, la scena si sgombrerà da ogni orpello, lasciando spazio ai puri sentimenti: amore, sdegno, pietà, perdono.

Pur avendo fortemente apprezzato lo sforzo creativo del progetto di Ricci/Forte nel voler rendere contemporanee e universali le vicende e i caratteri dell’opera, fuori finalmente da pizzi e merletti, ci sembra però che l’andare e venire dei figuranti sia stato a volte troppo insistito, e in certi momenti troppo concettuale, anche se lo sguardo della regia televisiva deve essere considerato diverso da quello dello spettatore seduto in platea.

Dal punto di vista musicale abbiamo gradito molto la direzione musicale di Riccardo Frizza, che rigorosamente, con mascherina e doppio leggio, dovendosi districarsi su diversi fronti, dirige l’orchestra soprelevata sulla buca, divisa per strumenti da barriere di plexiglas, sottolineando in modo molto accurato tutte le varie atmosfere, spesso inquietanti, che attraversano l’opera.
Spiace non avere visto da vicino il coro ben guidato da Fabio Tartari, che ha molto risalto nell’opera, ma che per ragioni evidenti era posto nella parte meno visibile del palcoscenico.

Tra gli interpreti ci viene subito da elogiare Michele Pertusi nel “role title”, capace in ogni momento di esprimere compiutamente i diversi sentimenti che la parte gli concede, pur nell’alterità della sua nobile figura, come nel duetto con Israele del primo atto o nella la struggente preghiera “Gran Dio che in tua virtù”, e nel già ricordato finale “Santa voce al cuor mi suona”, quando poco dopo va incontro alla morte.
Molto bene anche il soprano Francesca Dotto, a cui Donizetti offre una parte assai difficile, che si materializza soprattutto nell’ultimo atto con una grande aria di estrema difficoltà all’interno di una scena assai composita.
Anche il giovane Bogdan Baciu regge nel complesso bene un credibile Israele, anche se lo avremmo voluto in alcuni momenti più veemente di ardore. Difficile parlare del Fernando di Michele Angelini che ha dovuto sostituire all’ultimo minuto Javier Camarena che, fin dalla Cavatina “Di mia patria bel soggiorno”, si dimostra in grande affanno: si capirà dopo dovuta a fattori esterni alla sua volontà; che per fortuna si riscatta con l’ultima aria di ardua difficoltà “Notte di orrore io ti veggio; or vegli e tremi”.
Espressivi, pur nelle loro piccole parti, Giorgio Misseri nella sua barcarola, Dave Monaco come Leoni e Anaïs Mejías nella parte di Irene.
Un grazie quindi al Teatro Donizetti per una serata che, seppur passata sul divano, è stata capace di riempirci di gioia e commozione, come fossimo stati presenti a Bergamo.

MARINO FALIERO
Direttore Riccardo Frizza
Progetto creativo ricci/forte
Regia Stefano Ricci
Scene Marco Rossi
Costumi Gianluca Sbicca
Lighting design Alessandro Carletti
Coreografie Marta Bevilacqua
Assistente alla regia Liliana Laera
Assistente alla scenografia Francesca Sgariboldi
Assistente alle luci Ludovico Gobbi
Orchestra Donizetti Opera
Coro Donizetti Opera
Maestro del Coro Fabio Tartari

Marino Faliero Michele Pertusi
Israele Bertucci Bogdan Baciu
Fernando Michele Angelini
Elena Francesca Dotto
Steno Christian Federici
Leoni Dave Monaco
Irene Anaïs Mejías
Un gondoliere Giorgio Misseri
Beltrame Stefano Gentili
Pietro Diego Savini
Strozzi Vassily Solodkyy
Vincenzo Daniele Lettieri
Figli d’Israele Enrico Pertile, Giovanni Dragano, Angelo Lodetti
Voce di dentro Piermarco Viñas Mazzoleni

Performer Lucia Cinquegrana, Alessandro Hartmann, Pierre-Etienne Morille, Luca Parolin, Sara Paternesi, Alessio Urzetta, Emma Zani

Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Donizetti
Azione tragica in tre atti di Giovanni Emanuele Bidera e Agostino Ruffini
Musica di Gaetano Donizetti
Prima esecuzione: Parigi, Théâtre Italien, 12 marzo 1835
Edizione critica a cura di Maria Chiara Bertieri
©Fondazione Donizetti

Visto il 20 novembre 2020 dal Teatro Donizetti in diretta su Rai5

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