Il mio barbonaggio per le strade del mondo. Intervista a Ippolito Chiarello (1^ parte)

Ippolito Chiarello in giro per il suo barbonaggio teatrale|Ippolito Chiarello
Ippolito Chiarello in giro per il suo barbonaggio teatrale (photo: Lucia Pagliara)|Ippolito Chiarello

Il “barbonaggio teatrale” è nato dall’esperienza dell’attore pugliese Ippolito Chiarello che, ormai da molti anni (in tempi di pandemia assolutamente non sospetta) propone i suoi spettacoli, oltre che in teatro, anche per strada o luoghi non teatrali, su un palchetto, vendendoli a pezzi con un listino.
Per l’attore leccese il barbonaggio teatrale è atto d’amore verso il pubblico, un atto simbolico per rimettersi in contatto con la gente e creare nuove platee e, ultimo ma non ultimo, un atto politico per affermare che gli artisti sono dei lavoratori come tutti gli altri.
Lo abbiamo incontrato per capire e approfondire le suggestioni che la sua creatura possiede proprio nel momento difficile che la scena teatrale sta attraversando.

Quando è nata l’idea del barbonaggio teatrale?
L’idea del barbonaggio teatrale nasce nell’agosto del 2009, dopo il debutto di un mio spettacolo: “Fanculopensiero stanza 510”, prodotto dal Festival Castel Dei Mondi, con il testo di Michele Santeramo, la regia di Simona Gonella e le scene e le luci di Vincent Longuemare.

Perché ne hai sentito l’esigenza?
Subito dopo aver debuttato, e dopo mesi di lavoro e allestimento e con una bella produzione, si è concretizzato un pensiero che sicuramente mi abitava da tempo, in modo latente, ma che era arrivato a destabilizzare il mio percorso artistico. Si è configurata quella che per me è stata una “stupenda crisi”. Era chiaro che quello spettacolo non avrebbe mai girato, aldilà della bontà dello stesso, per tutta una serie di motivi che sentivo legati al sistema teatrale che stavo abitando e che finalmente cominciavo a vedere chiaramente e ad affrontare in maniera critica.
Sentivo il bisogno di trovare una mia soluzione, una modalità, un percorso per rimettere su una carreggiata nuova il mio lavoro di attore. Senza lamentarmi e dare la colpa agli altri, ho cercato di capire quali erano le criticità. Ero convinto che il mio lavoro potesse e dovesse essere fatto tutti i giorni, volevo abitare il palcoscenico tutti i giorni (e non solo per provare spettacoli che poi non avrebbero girato), ma era chiaro che con il sistema esistente questa era una chimera, al di là di questo spettacolo specifico o delle mie qualità artistiche.

In che modo l’hai configurato?
Un elemento in me è risultato da subito chiaro e mi ha suggerito la strada per poter trovare una possibile soluzione: il pubblico, la gente, l’interlocutore, chi mi ascolta, le cittadine, i cittadini, chiamiamoli come vogliamo. Ho provato allora a fare un esperimento che nemmeno io capivo fino in fondo. In concreto, decisi di portare quello spettacolo con cui avevo debuttato al Festival Castel Dei Mondi anche per strada, vendendolo a pezzettini alla gente che passava, con un primo esperimento proprio al festival andriese l’anno dopo il debutto. Volevo capire se l’avrebbero comprato, saltando tutti gli intermediari e facendo un’azione molto cruda e per certi versi inconsueta.
Poi, in seguito, ho capito che stavo esattamente facendo quello che avevano fatto i miei avi, quando in qualche modo hanno inventato il teatro, e di conseguenza ha fatto capolino l’esperienza straordinaria dell’Odin, per citare la più nota.
Ho cominciato così, all’inizio anche con molte sfaccettature e sensi che si sono chiariti nel tempo, un viaggio straordinario, parallelo al mio lavoro nei teatri, proponendo il mio spettacolo, ogni volta, il pomeriggio, prima della serale in teatro, in una piazza della città in cui ero ospitato. Vendevo a pezzi lo spettacolo, su un palchetto molto piccolo, con un ampio impermeabile come costume e parlavo con le persone, le invitavo a teatro, stabilivo relazioni.

Ippolito Chiarello (photo: Lucia Pagliara)
Ippolito Chiarello (photo: Lucia Pagliara)

In quali parti d’Italia hai portato il barbonaggio? Sei arrivato anche all’estero?
Quest’azione, all’inizio quasi “incosciente”, ha cominciato a diventare una pratica quotidiana e ha cominciato a rivelare tutta la sua potenzialità. Capivo che era un grande atto politico e poetico, un atto d’amore verso il mio principale interlocutore, il pubblico, che prendeva una forma “umana” e non era più un’entità convenzionale e connaturata al teatro, scontata. Ho cominciato a sentire la necessità di instaurare un rapporto sentimentale e personale con questa entità, che mi permettesse di esistere in maniera potente, e non in quanto semplicemente facente parte della categoria degli attori. Ho capito che il barbonaggio teatrale poteva essere uno strumento importante da affiancare al mio percorso nei teatri, non per trasferirmi all’esterno, ma per cercare di portare nuovo pubblico a conoscere e a frequentare l’edificio teatrale. In questi anni di viaggio ho verificato come tanti, molti, non conoscano fino in fondo la bellezza di questa possibile frequentazione. Mi rendo conto, lo dico con molta cautela e umiltà, mettendo me in prima linea, che molto dipende dal fatto che spesso le porte dei teatri non sono veramente aperte, e i suoi abitanti non sono sinceramente ospitali.
Quest’azione, che all’inizio ha creato un po’ di sconcerto e diffidenza tra gli stessi colleghi e operatori, nel pubblico invece ha suscitato grande adesione, sotto tutti punti di vista. Ho sicuramente fidelizzato un pubblico che viene a vedermi poi a teatro, che era l’obiettivo più importante. Per farla breve, da quell’agosto del 2009 a questo gennaio 2021, ho fatto un lungo viaggio di 11 anni in più di 500 città in Italia, e sono stato ospitato in molte città e capitali europee (Barcellona, Madrid, Parigi, Londra, Berlino) arrivando nella lontana città di Vancouver, in Canada.

E poi ne è nato anche un film.
Nel lungo viaggio fatto in Europa è nato un film, “Ogni volta che parlo con me”, scritto insieme a Matteo Greco, che ha firmato anche la regia e racconta in maniera visionaria e musicale questo percorso in macchina e a piedi, gli incontri, i luoghi attraversati, la pratica del barbonaggio e il confronto con tante culture, anche teatrali, diverse.
Il film è stato prodotto da me, da Kama, Matteo Greco, dalla rete pugliese dei Teatri Abitati, dalla Puglia Film Commission e anche e soprattutto dal pubblico della strada, che aveva imparato a conoscere e ad amare il mio viaggio e, con piccole donazioni, aveva deciso di finanziare questa ricerca artistica. Anche dell’esperienza canadese esiste un documentario che la racconta e la illumina: “To be determinated”.

E’ un’idea che ha avuto molti proseliti? Mi pare ci siano stati anche dei momenti collettivi e laboratori di formazione…
Sì, quest’azione è diventata un’azione replicata da molti altri artisti; è diventato un movimento di pensiero e non burocratico, che semplicemente rimette in moto e illumina l’azione originaria del fare teatro. Non ho inventato nulla, ma ogni giorno lavoro per nutrire questa necessità di ripartire dalla radice di questo lavoro.
Ho chiamato quest’azione barbonaggio teatrale perché è la scelta di un artista di ri-affidare la sua esistenza e sussistenza principalmente alle persone e alla loro attenzione (volgarmente chiamato pubblico). Parto dalle origini e mi confronto con il nuovo, con le altre possibilità della rappresentazione, ma con i piedi puntati sull’essenza del mio lavoro, perché questa mi garantisce la possibilità di esercitare un’arte che ha la sua unicità nella presenza fisica e nella relazione stretta con chi guarda e ascolta.
L’espressione “barbonaggio teatrale” è diventata, in qualche modo, una definizione familiare. Le università se ne sono interessate, affidando l’approfondimento a varie tesi di laurea; io sono cresciuto come artista e come persona e continuo a verificare e certificare che tutto il pubblico e tutti i luoghi possono avere una dignità: dal bar più malfamato al più prestigioso teatro.
Per me, quando ci sono le condizioni e il rispetto di quello che sto facendo, io ci sono e vivo nel mio lavoro. Negli anni ho capito che questa azione è semplicemente la mia personale risposta per lavorare concretamente con il pubblico e cercarne di nuovo. Sento la necessità di non replicare convenzioni senza accorgermi del cambiamento che mi attraversa.
Dal 2010 a Lecce, ogni anno, organizzo poi una manifestazione che si chiama “Artisti barboni per un giorno”, che vede la partecipazione di molti artisti provenienti da varie parti d’Italia e dall’estero e che per una sera si esibiscono come me, su un palchetto, tutti in una grande piazza al centro della città.
E’ un atto politico e poetico, e in questa occasione ognuno dei partecipanti ha modo non solo di presentare la propria proposta artistica direttamente alla gente, ma di riflettere e confrontarsi insieme sull’arte come bene comune e sul mestiere dell’attore.
Il barbonaggio oggi è diventato anche azione di creazione di comunità di narratori “su palchetto” in tutto il mondo. La gente, di tutte le estrazioni sociali e le nazioni in cui ho lavorato, impara a conoscere con semplicità il processo teatrale, nella sua forma più pura, e si allena ad abitare i teatri e a ri-conoscere questo mezzo come strumento per raccontarsi, a volte anche in prima persona.
Questo è già avvenuto per esempio a Napoli, per il Napoli Teatro Festival, con i ragazzi del quartiere San Giovanni a Teduccio, in collaborazione con il Nest. A Nantes, in Francia, e in altre città italiane: Roma, Asti, Mantova…
A Vancouver, ospite della Simon Fraser University, in collaborazione e con il sostegno dalla prestigiosa fondazione Musagetes, c’è stato un seminario tenuto per i nativi americani che ha coinvolto anche molti studenti nell’esplorare il barbonaggio teatrale come pratica da scoprire.

— fine prima parte —

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