Marta Ciappina: saremo ancora in grado di ballare? Intervista

Marta Ciappina in Bermudas|Marta Ciappina
Marta Ciappina in Bermudas|Marta Ciappina

Quando pensiamo al termine performer, tra i primi artisti che ci vengono in mente c’è una donna: Marta Ciappina.
Danzatrice, coach e didatta, partecipe in tutte le modalità in cui lo stare sulla scena si manifesta, Ciappina è sempre disponibile a sperimentarsi con diversissimi artisti, mai scelti a caso.
Si forma principalmente a New York, al Trisha Brown Studio e al Movement Research. Come danzatrice affianca, tra gli altri, Daniele Albanese_Compagnia Stalker, Compagnia Daniele Ninarello, John Jasperse Company, Luis Lara Malvacias, Gabriella Maiorino, Ariella Vidach – AiEP.
Dal 2013 collabora con la compagnia MK, gruppo di punta della scena contemporanea, guidato da Michele Di Stefano, Leone d’Argento alla Biennale Danza di Venezia del 2014.
Nel 2015 inizia la collaborazione con Alessandro Sciarroni, Leone d’oro alla Biennale Danza di Venezia del 2019. Contemporaneamente partecipa alle creazioni della compagnia svizzera di Tiziana Arnaboldi ed apre la sua collaborazione con Chiara Bersani per i progetti “Goodnight, peeping Tom” e “The Olympic Games”, creato in sinergia con Marco D’Agostin.
Attualmente, come interprete, è concentrata su “Pezzi Anatomici” – progetto MK, “Saga” – creazione di Marco D’Agostin e “Quel che resta”, ideazione di Simona Bertozzi.
Come si evince da questo piccolo curriculum, Marta Ciappina ha collaborato con i maggiori e più qualificati artisti della scena, non solo italiana, attivando al contempo diversi processi di formazione.

Partiamo proprio della tua formazione. Perché l’America?
Lo slancio verso l’America è stato pungolato dalla premura e dal desiderio di fare presto. Le mobilità erano acerbe, gli anni maturi. Rischiarato il traguardo, non potevo concedermi indugi e balbettii. New York, con lo sconfinato serbatoio formativo che luccica dall’alba azzurrata oltre il malinconico crepuscolo, è apparsa la meta che non portava nel suo ventre nessuna esitazione.

Cos’hai imparato lì che rilevi di non aver trovato in Italia?
L’Italia è un mirabile ricettacolo di formatori e didatti eccellenti. In questo alveo sgargiante io sono stata abbagliata dal fulgore di alcuni pensatori che sono riusciti a gettare lo sguardo oltre il profilo delle mie spalle ingombranti. Pienamente consapevole che le congiunture non abbiano permesso di imbattermi in tutte le eccellenze italiane – perdonate quindi le assenze – con gioia elenco i nomi dei didatti che la sorte mi ha concesso di frequentare con assiduità: Lia Courrier, Rosita Mariani, Barbara Toma, Stefania Trivellin, Enzo Procopio.
I miei quaderni trattengono regole, dogmi, racconti, formule, slogan somatici assorbiti da questi acuti luminari, indefessi pionieri assetati di conoscenza.
Autori fuori classe e educatori eccezionali, Elena Giannotti e Daniele Albanese hanno marchiato a fuoco in tempi recenti la mia grammatica, permettendomi di tagliare e cucire la stoffa di un abito che indosso con agio.
In Italia ho trovato Marta.

Marta Ciappina
Marta Ciappina

Quali sono stati i tuoi maestri di riferimento?
I maestri sono i colleghi, compagni di un viaggio eccitante, frastagliato e tortuoso, affollato di inciampi e di strettoie soggette a black-out. Nelle strettoie, dotati della solida colonna vertebrale dei saggi, i colleghi protendono le braccia verso le mie esitazioni, permettendomi di varcare la soglia del buio. I colleghi sono annesso e prolungamento del mio corpo, sono incrostati della mia stessa carne, partecipano alla mia piena definizione.
Io abito il loro corpo, cerco una tana, un nido, un rifugio dove custodire e intensificare visioni, fantasticherie, allucinazioni, germinando collegialmente l’origine trasparente del gesto.
Il gesto che affiora è la parte visibile di un processo di travaso e reciprocità che dilata la nozione di collega. I colleghi sono salvezza, scuola, strizzate d’occhio, enciclopedie da sfogliare senza dover chiedere il permesso. Mentre accarezzo le pagine della mia vita non posso non domandarmi che cosa sarei io senza Annamaria Ajmone, Eleonora Chiocchini, Laura Scarpini, Philippe Barbut, Biagio Caravano, Matteo Ramponi, Pablo Tapia Leyton e tutti i giovani maestri con cui ho avuto il privilegio di respirare il profumo indicibile di una sala prove.
La risposta è niente, non sarei niente.

Nelle tue collaborazioni hai superato tutte le barriere che in genere lo spettatore trova nei vari modi in cui danza e movimento si esprimono in scena. Ci vuoi approfondire questi aspetti?
Questione affascinante, rivestita di aculei. Azzardo ipotesi maneggiando l’oggetto con pudore, senza pretese di asserzione, analizzando con attitudine clinica avventure personali e privilegiando l’angolazione dell’interprete.
Sminuzzare gli argini per dissolvere le barriere ipotizzo sia l’esito di una sinergia virtuosa che attiene al delicato triangolo autore – interprete – spettatore. Il corpo silenzioso dell’interprete, custode di un lessico allenato ad un’arrendevolezza che si foggia intorno al gergo del singolo autore, credo sia un attrezzo (come artigiana considero attrezzo un’apposizione nobile) che abbia bisogno di contenuti affermativi e osservatori acuti per poter ambire all’abbattimento delle barriere.
I gerghi dai tratti compositi, originali e graffianti che, come interprete, ho frequentato negli ultimi anni sono meravigliosamente spudorati e affrancati dal perimetro strangolante di una definizione. Esemplare la mia storia con Chiara Bersani, genio che, con voce flautata e occhi felini, ha innescato un cortocircuito epico, traguardo e punto di partenza per il futuro delle arti performative.
L’autore scrive, l’interprete “racconta”, lo spettatore recettivo e poroso guarda, e ciò che vede risuona nella sua corporeità, attivando una corrispondenza empatica. L’empatia implica una risonanza motrice: l’osservazione produce nello spettatore, in modo inconsapevole, degli aggiustamenti posturali in una sorta di contagio ‘gravitario’, abitando, in modo temporaneo, l’immaginazione del danzatore.
Gli occhi amorevoli o feroci dello spettatore, scortati dalla candida astuzia dell’autore, permettono di polverizzare gli steccati che delimitano i recinti tra gerghi, favorendo una mescolanza che consente all’interprete contemporaneo un funambolico ed irrinunciabile trasformismo.

Scelgo tre artisti, assai diversi tra loro, con cui hai lavorato: Michele Di Stefano, Alessandro Sciarroni, Marco D’Agostin. In che modo ti sei posta nei loro lavori?
Nella mia faretra riposano tre frecce: serietà, devozione, storia familiare. Questo l’equipaggiamento con cui mi presento al lavoro.
Michele, Alessandro, Marco sanno di poter confidare in una congenita inclinazione alla responsabilità e in un’appassionata dedizione, sostenute da una storia familiare a cui attingo per elettrizzare l’inventiva durante gli esercizi di creazione. Con attitudine maieutica e tatto cortese, Michele, Alessandro e Marco strappano brandelli di carne e di immaginazione sempre imprevedibili. L’assenza di un pronostico è l’incantesimo che fa trepidare e battere il mio cuore.
Riallacciandomi quindi alla tua domanda, credo di non essere io a pormi, ma sono loro ad invitarmi, in uno stato sognante quasi da sonnambula, ad atterrare nelle loro stanze segrete in cui mi attende ad ogni prova una sorpresa che scioglie questi stupefacenti autori dal laccio dell’etichetta.
L’interprete abita i sogni dell’autore e ha il privilegio di poter spiare l’avvincente incedere inventivo, fatto di gorghi e di inopinate epifanie, e trovare ricovero e consolazione sotto le accoglienti coperte dell’ingegno.
Mio marito Paolo sostiene che io sia innamorata degli autori con cui lavoro, ritagliando per sé il ruolo di amante. Non ho mai osato avanzare obiezioni… La relazione fra autore e interprete ricorda le passioni adolescenziali, i flirt sotterranei in cui si avvicendano euforia e malinconia, erotizzati da contraddittori – talvolta taciti, talvolta urlati – in cui l’emotività si sottrae al giogo della ragione. Quando l’eccesso di compromissione e di passione opacizza la mia solidità, sorrido e chiedo scusa, affidandomi alla loro intelligenza e al loro affetto, virtù che abbondano nei nostri tre diamanti rossi.

Quando insegni, come ti muovi?
Come coach, ho il lusso di allenare creature cangianti, attori, futuri attori, danzatori, futuri danzatori. Un parterre pirotecnico e brioso di movers accomunati – perdonate la semplificazione – da una tibia, da un sopracciglio, da uno sterno, da un neo, da una ferita, da un’attitudine estrosa e minuziosa, dal desiderio di osservare tratti di conoscenza, da un appetito che li chiama a posare l’attenzione con cura, metodo e coraggio su una materia traboccante di enigmi.
Qualunque sia il volto riflesso nei miei occhi, apro la classe presentando il training come un kit somatico e intellettuale per “sopravvivere” sulla scena contemporanea con corpo vigile e mente brillante.

Su cosa poni l’accento maggiore?
Le ambizioni sono molteplici: alfabetizzare, affinare il metodo di studio, educare cittadini garbati, costruire un asilo visionario mai assertivo che accolga fragilità, frustrazioni, conversazioni intorno al carattere, allo statuto, alle sfide del corpo, al suo rapporto con l’intuizione.
Questa lista di ambizioni galleggia intorno ad un ormeggio nodale, la mia tenera ossessione, la parola.
Il sistema di parole, di locuzioni, di strutture sintattiche cerca di articolarsi a partire da scarti fra fughe evocative e concretezza anatomica, in un azzardo linguistico che tenta di fare breccia nelle ossa e nell’inventiva del mover. Condurre queste creature è onore e terrore. Investo un profluvio di ore, al limite di un comportamento maniacale, nella scrittura di un training. La mia penna non è mossa dalla vanità ma dalla incoraggiante strizza che i movers, studiando con me, possano sperperare tempo, concentrazione ed investimenti. Che si tratti di un appuntamento didattico furtivo ed estemporaneo o, al contrario, di una frequentazione assidua, non voglio deluderli, perché sono la luce dei miei occhi (e chi insegna non sospetta che si tratti di un’iperbole…).

Non sarebbe venuto il tempo di un tuo lavoro autonomo?
Declino con eleganza la tua lusinga.
Gli autori sono inventori, io l’operaia che tenta di contribuire alla realizzazione dell’invenzione. Un profilo professionale che amo profondamente e per cui non vacillo. L’educazione che ho tallonato e a cui ho aderito nei preziosi primi anni di formazione ha forgiato muscoli e fiuto da interprete. Non ho quindi un’attrezzatura da autore o il talento e la vocazione che possano sopperire all’assenza di attrezzatura. E come interprete ho ancora desideri… un racconto solistico scritto per me. Non sono mai stata invitata a maneggiare una scrittura cesellata intorno ai miei difetti e alle mie virtù. E’ il mio pensiero di felicità in queste ore estreme. Mentre ordino questi pensieri, mi accorgo che le parole hanno l’odore malinconico di un tempo passato e non posso non domandarmi… saremo ancora in grado di ballare? Saremo ancora in grado di insegnare? Ho paura.

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