Al fianco del lavoro di Dom-, il gruppo fondato da Valerio Sirna e Leonardo Delogu, c’è un alleato imbattibile: la realtà. Partecipando ai loro esperimenti, solitamente consistenti in esplorazioni, camminate, accampamenti, l’impressione (che già provavo a raccontare qui) è che non sia il mondo a essere tradotto per il teatro, ma il teatro a ricostruirsi con le cose del mondo, create come per la prima volta dallo sguardo di chi cammina e scruta. Come se fossimo riportati allo stato di quegli uomini archetipici che immaginarono, provandolo, di ricreare da loro lo stupore divino della realtà in uno spazio artificiale, quello, appunto, della scena.
Ecco perché la realtà è alleata di Dom-, perché loro la resuscitano, tornano a reificarla al centro di una cornice che non è mai l’arco immobile di un boccascena, ma quello ripetuto di una camminata.
Da questa prospettiva, è quasi scontato che dovessero accendersi per la figura e l’opera di Fernand Deligny, di cui l’anno scorso le Edizioni dell’Asino hanno ripubblicato, insieme ad altri scritti, il fondamentale “I vagabondi efficaci”, non più ristampato in Italia dal ’73.
Il pedagogo francese, nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, costruiva una geografia di strutture aperte a giovani autistici e con disabilità mentali, i quali non erano rinchiusi in un luogo atto al contenimento o alla “rieducazione”, ma potevano muoversi, camminare tra un certo numero di punti a loro riservati, non più distanti di dieci chilometri l’uno dall’altro. Anche lì si camminava – così come camminano incessantemente i protagonisti del film “Le moindre geste” che Deligny gira nel 1971 – per ricostruire il mondo. Un mondo, in quel caso, paziente e compatibile con la diversità degli “alienati” o degli “asociali”, irriducibile all’operare finalistico del mondo capitalista occidentale.
Ma torniamo a Roma: al Teatro India andava in scena, una settimana fa “Campfire”, forse il primo lavoro di Dom- pensato per un teatro. Forse di necessità si è fatta virtù, visto che il dittico progettato “Nascita di un giardino”-“Wild Facts/Fatti feroci” previsto per le ultime due stagioni è stato in parte eroso dalla crisi pandemica e del tutto privato del progetto di creazione di un giardino, inizialmente previsto in uno spazio abbandonato in prossimità della ex fabbrica dove ora sorge il teatro. Ecco dunque che Sirna e Delogu, affiancati da Arianna Lodeserto, si trasferiscono al chiuso.
Cosa vediamo in scena? Il palco della sala B dell’India è enorme, spalancato al suo limite estremo nelle tre direzioni fino alle tre pareti di mattoni dell’ex capannone, e addirittura si riversa all’aperto, quando un siparietto si solleva davanti a un’apertura sul fondo, da cui irrompe il verde delle canne del piazzale esterno.
A circa metà profondità penzola il cilindro aperto di una corteccia, che dà l’idea di una scuoiatura d’animale, una carcassa di cinghiale monumentale al gancio, simile a quelli della Mononoke di Miyazaki; così a terra c’è qualcosa dalle fattezze frastagliate, di nuovo, di una pelle, che si distende a guisa di un continente su un planisfero, segnato dal pattern di un lastricato a sampietrini (di Mattia Cleri Polidori).
Ai due lati, quattro e quattro batterie Svoboda erigono muri di luci o si attutiscono in tardi meriggi, completando il disegno di uno spazio scenico smaliziato, di enorme fascino evocativo.
Nella prima parte è Sirna stesso a vagare per lo spazio, accompagnato dalle parole del testo letto e dalla musica dei Capibara. È un alter ego dell’Yves di “Le moindre geste“? Un marginale, un esiliato? Lascia che il suo trascorrere sul palco sia guidato da appigli sonori (il rumore di chi passa, forse un treno, il clangore attutito di una fabbrica che si sveglia, lo scampanio di un gregge che prova gli zoccoli sulle pietre), o da oggetti inesistenti, che solo le sue dita sentono: un filo invisibile che raccoglie e ammatassa, dei grumi di terra.
Nella seconda parte è invece un gruppo di ragazze che penetra nel giardino. L’atmosfera è a metà tra l’evasione e l’invasione, si guarda lo spazio conquistato, ci si siede a cerchio, qualcuno si apparta per una pisciata. Ma ben presto l’atmosfera leggera si aggrava. Qualcosa a folate attraversa quello spazio: è qualcosa che attrae le ragazze, ora le respinge, ora le disgusta. Ora le spinge al riso. Quindi la rilassatezza dei loro movimenti, con un’impennata, chissà se costruttivista o chapliniana, perde la gratuità del piacere e dell’emotività e si ingabbia nella ripetizione di un movimento finalizzato, come quello di operaie al tornio, al telaio («Tutta la cura è un viaggio al fondo della ripetizione», emerge un Deleuze). Il finale è la perdita di questo movimento a favore di qualcosa come una nuova tensione alla libertà.
A trainare il tutto c’è la voce off che unisce brani di autori diversi e, presumibilmente, in parte originali, in una drammaturgia testuale sulla quale le scene si svolgono. La paternità delle parole si perde, non ci si può fare niente, non è possibile pretenderne un’attribuzione certa e il testo sembra rifiutare una struttura a sviluppo chiaro. Così come è faticoso adagiarsi su ogni curva, ogni gomito del movimento sulla scena. Eppure è impossibile sottrarsi a essi, rifiutare di accostarsi al loro mutare, l’esigente pungolo allo smarginamento, alla ricerca. Forse l’unica postura adottabile di fronte, dentro “Campfire” è quella di Yves, che vaga senza meta, discorrendo un discorso suo, lasciandosi deviare se capita. Dentro uno spazio che per una volta perde i confini come si perdono gli obiettivi, in una ricerca un po’ sgrammaticata.
Se si accetta di tenere questa postura, all’interno di un ordito denso di riferimenti alloctoni e propri, l’efficacia di questo lavoro di Dom- entra nuovamente in rapporto con quell’operazione di creazione della realtà di cui si parlava prima, con un elemento di crisi in più: il fatto di rinchiudersi in un luogo. Ma ha qualcosa di paradossale: essa è tanto più bruciante quanto più sabota e viola lo spazio in cui si costringe. È irresistibile quando tracima oltre il muro di fondo, in quella porta aperta sul verde; è sorgiva e incontrovertibile quando trascina gli spettatori, a fine lavoro, proprio in quel campo “proibito” il giardino che non si è potuto costruire.
«Improvvisare è raggiungere il mondo, congiungersi con esso»: abbracciare, mimare con convinzione la realtà, il fuori; abbandonare le pareti del teatro prima come proiezione, poi come reale spostamento fisico; far scoccare il miracolo dello stupore, infine quello della lotta.
In “Campfire”, breve compendio della filosofia di Dom- c’è tutto questo, per prendere lo slancio e andare ancora avanti.
CAMPFIRE/dove comincia l’incendio
di DOM-
ideazione, testi e messa in scena Leonardo Delogu, Arianna Lodeserto, Valerio Sirnå
con Loredana Canditone, Daria Greco, Serena Emiliani, Arianna Lodeserto, Chiara Lucisano, Chiara Marolla, Marta Olivieri, Michela Rosa, Valerio Sirnå
sculture di scena Mattia Cleri Polidori
luci Mattia Bagnoli
musiche originali Capibara
suono Clovis Tisserand
aiuto scenografo Tiziano Conte
nel montaggio letterario Yves Guignard, Fernand Deligny, Morena Pavan, Gilles Deleuze, Milo De Angelis, Rainer Maria Rilke, Ida Travi, Dino Campana, Maurice Pialat, Lucia Amara, Josée Manenti, Luigi Monti
locandina Ozge Sahin
fotografie di scena Agnese Sbaffi
produzione DOM-
coproduzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Visto a Roma, Teatro India, il 6 giugno 2021
Durata: 1h 20′