La morale della favola La cicala e la formica di Esopo è che chi non fa nulla non ottiene nulla. Se la formica è l’immagine del lavoro impegnato, metodico, la povera cicala “che il più bel canto non vende ma regala”, come invece amava raccontarla Gianni Rodari, rimane la perdigiorno svogliata destinata a soccombere. Con lo scivolamento di significato di otium e negotium, l’ozio moderno infatti ha del tutto perso il suo valore antico corrispondendo oggi a noia, accidia e perdita di tempo, mentre fare significa produrre, costruire, guadagnare e godere, forse, dei beni prodotti.
La favola di Esopo viene tirata in ballo più volte in “Uno sguardo estraneo ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda” di Paolo Costantini. Il regista romano è il vincitore della quarta edizione di Biennale College – Registi under 30, e ha fatto il suo debutto nel 49° Festival Internazionale del Teatro di Venezia, diretto dal duo artistico Ricci/Forte.
La morale della favola diventa qui il disegno programmatico della società moderna che fa della performance un imperativo sociale e, usando come specchietto per le allodole il desiderio inafferrabile di felicità, organizza la nostra vita in lavoro continuo, smisurato e competitivo.
Nel suo lavoro Costantini, scardinando il sistema narrativo della rappresentazione, si pone l’obiettivo di indagare il rapporto dell’uomo moderno con la felicità attraverso due soggetti emblematici: il tempo e l’oggetto quotidiano.
Nei primi lunghi minuti del lavoro vediamo sul palco un metronomo viaggiare sul dorso di un robot Roomba – un modello di aspirapolvere in uso in tante abitazioni – dando vita a un sistema interconnesso. Al vertice c’è il tempo scandito in ticchettii costanti e infiniti, alla base il robot in azione con movimenti arbitrari e scattosi, in avanti e indietro, a destra e sinistra, senza soluzione di continuità. Il suono di entrambi li accompagna, rumore e ronzio perpetuo e fastidioso che una volta metabolizzato dall’udito rimane una forma di disturbo latente. A ben vedere quella piccola monade sul palco sembra una pedina impazzita chiusa in una sorta di spazio-gabbia dalle pareti invisibili. A delimitare le “pareti” sui tre lati stanno, in attesa, una schiera di oggetti: un nugolo di vestiti e scarpe, una teiera, una sveglia, una sedia, un mocio per il pavimento, una cassettiera, un telefono. Oggetti familiari, riconoscibili, apparentemente innocui e inanimati.
Mentre le luci restano accese in tutta la sala, illuminando anche la platea – come a dire che pure noi siamo il tema e i protagonisti di ciò a cui stiamo assistendo – e la sveglia inizia a trillare ripetutamente interrompendo lo stato di attesa che si è venuto a creare, entrano in scena due donne: Evelina Rosselli e Rebecca Sisti. Le due attrici-performer rivolgono lo sguardo agli astanti, instaurando un dialogo muto in cui potrebbe esserci un invito, un’interrogazione, una richiesta, o semplicemente un senso di inquietudine condiviso. Poi si rivolgono agli oggetti. Li prendono in mano e li spostano uno a uno sul palco, invertendone continuamente la posizione e la traiettoria, non trovando mai la collocazione più appropriata. Cercano di mantenere la successione delle cose, altrimenti sarà il caos: “Mi fido solo degli oggetti che non cambiano” dice una; “toglierò l’abitudine di credere a ciò che non si vede” dice l’altra. Calzano e scalzano le scarpe, vestono e svestono gli abiti accumulati sul pavimento mentre chiedono a noi con disperazione: “Come sto? Sto bene?”.
La sveglia ora strilla, e incalza la corsa al fare, a un’operosità incessante, vertiginosa, pesante e insopportabile.
“Il tempo è il vero tiranno dei mortali – diceva Shakespeare – li genera e li seppellisce, a suo piacimento”, ed è contro il tempo che ingaggiamo una continua lotta, cercando il controllo ossessivo di ogni cosa che ci circonda.
Nel loro sfinente affaccendarsi, le due giovani donne sembrano le appendici accessorie di quello che ora è solo un cumulo compulsivo e arrogante di oggetti, che grava sui loro corpi come un fardello e che loro, come noi, portiamo addosso alla stessa maniera di Sisifo. Oggetti a cui l’homo faber ha donato un’anima con i propri desiderata, i ricordi, la nostalgia, l’affetto. Gli oggetti infatti si animano, si muovono autonomamente, la sedia trema e la cassettiera sanguina, emettendo una sonorità graffiante, distorta, inquietante (gli elementi scenici sono di Giuseppe Stellato, che abbiamo incontrato nella scorsa edizione del festival, il disegno sonoro invece è di Riccardo Marsili, mentre la supervisione del suono è del Leone d’oro 2020 Franco Visioli).
E’ qui che le due performer tirano in ballo a più riprese la favola di Esopo, alternandosi ora nel ruolo della formica, ora in quello della cicala. All’operosità della formica però sembrano entrambe preferire ora l’evanescenza di un bel canto, ora il suono caldo e suadente del sassofono, e la leggerezza di un ballo improvvisato. Come se l’arte potesse essere l’unica fonte di salvezza, un respiro liberatorio dal consumismo e dalla distorsione del capitalismo. L’arte come maestra di otium, qui inteso nell’accezione degli antichi, come momento di presa di consapevolezza di sé e di cura del proprio essere al mondo, come momento di distacco dalle lusinghe del vivere sociale.
Il lavoro di Costantini prende inoltre ispirazione da “Oggi avrei preferito non incontrarmi”, romanzo del Premio Nobel per la letteratura nel 2009 Herta Müller. In breve la storia racconta di una donna senza nome che viene convocata dai servizi segreti del regime di Ceausescu per un interrogatorio, e mentre attraversa la città per raggiungere il luogo dell’incontro riflette sulla propria vita restituendo le crude implicazioni di un’esistenza sottoposta al regime dittatoriale. Il romanzo ritorna nel lavoro di Costantini come voce fuori campo, come piccole tracce che nell’ombra dovrebbero suggerire ulteriori immagini di quella dittatura a cui ci sottopone la “pretesa di felicità”. Nel montaggio frammentato della performance, dove è assente un filo narrativo, l’inserimento di questa traccia allusiva diventa un po’ confusa, a tratti superflua, comprensibile forse da un punto di vista intellettuale se si ha una lettura pregressa del romanzo.
Questo primo debutto presenta meriti regìstici e delle debolezze pratiche che si coniugano nella direzione che Costantini prende, o sembrerebbe prendere: uscire da una trama, e costruire una forma di percezione simultanea e multi-prospettica, data anche dall’interazione tra interprete e pubblico (alle due performer viene lasciato uno spazio di improvvisazione con la platea), nella ricerca di un contatto, di un avvicinamento sensoriale, ma che al momento sembra ancora ingabbiato in una dimensione logica.
Quella sensazione di noia avvertita durante la performance – che per chi scrive non si è concretizzata in una noia rivelante – potrebbe essere comunque una direzione da seguire, portandola però all’estremo. Il tempo della noia, che molti di noi hanno sperimentato durante il lockdown, è un tempo che si ferma, un tempo lungo, un tempo di sospensione e di abbandono, un tempo “che incanta e incatena l’esser-ci”, è un terreno lasciato a maggese, lontano dal vuoto in cui la “furia del fare”, gli oggetti, il lavoro, la pretesa assurda di felicità ci hanno gettato.
Uno sguardo estraneo ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda
Regia: Paolo Costantini
Con: Evelina Rosselli, Rebecca Sisti
Drammaturgia: Linda Dalisi
Elementi scenici: Giuseppe Stellato
Supervisione al disegno sonoro: Franco Visioli
Disegno sonoro: Riccardo Marsili
Luci: Fabio Bozzetta
Costumi: Graziella Pepe
Interaction design: Andrea Spontoni
Tutor del progetto: Antonio Latella
Produzione: La Biennale di Venezia
Residenza artistica: Carrozzerie N.O.T di Roma
Con il sostegno di: Associazione Ex Lavanderia di Roma
Tratto da: OGGI AVREI PREFERITO NON INCONTRARMI di Herta Müller © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano S.r.l. Prima edizione ne “I Narratori” giugno 2011
Visto a Venezia, Teatro Tese dei Soppalchi, il 3 luglio 2021
Prima nazionale