Pippo di Marca: abbiamo preso il teatro e l’abbiamo girato a 360°. Intervista

Pippo di Marca (photo: Rita Borga)|Photo: Rita Borga||
Pippo di Marca (photo: Rita Borga)|||

Essere un ponte tra generazioni è una vera vocazione per il Festival Opera Prima di Rovigo, diretto da Massimo Munaro (in corso fino a domenica 12 settembre). Una vocazione e un atto politico che si rinnova di anno in anno. Il paesaggio che il festival coltiva sotto la spinta del Teatro del Lemming è molto più di uno spazio d’incontro e di dialogo tra artisti di diverse generazioni, tra il pubblico e i Maestri del Teatro italiano, è anche uno spazio di memoria e soprattutto di trasmissione, che stringe in un abbraccio passato, presente e futuro. Seminare conoscenza, depositare il sapere nelle mani dell’altro significa fare polis, fare cultura.

Si colloca in questo spazio, e risponde a questa vocazione, l’incontro avvenuto durante la terza giornata del festival con il regista, attore, performer, autore Pippo di Marca, e la visione di una delle tre parti di cui si compone il documentario “A spasso con l’Avanguardia”, realizzato a più mani nel 2010.
Pippo di Marca è uno degli ultimi “barbari” della seconda generazione di artisti che appartengono a quel movimento rivoluzionario che prese piede a Roma sul finire degli anni ’50, e che dopo tante etichette da parte degli storici e dei critici (teatro di ricerca, teatro sperimentale, teatro immagine), è entrato nella nostra koinè come Teatro d’Avanguardia, definizione mal accettata dagli stessi artisti: per Leo de Berardinis il loro era teatro contemporaneo.

Pippo di Marca è una biblioteca in carne e ossa, e un fiume in piena che brucia ancora della passione di chi faceva teatro “sputando sangue, sputando l’anima”.
La sua voce, una voce narrante calda, emozionata, generosa, combattiva, politica, scivola avanti e indietro nel tempo attraverso un flusso inarrestabile di pensieri, ricordi, visioni, curiosità, sapere.
Ma Pippo non parla per sé, non è interessato a raccontare la propria singola e singolare storia, presta la sua voce ai “giganti” di allora, e ai “piccoli” di oggi, passando attraverso tutte le generazioni di artisti che hanno trovato nel Teatro d’Avanguardia il loro magistero. Glielo diceva anche Franco Quadri: “Tu non devi parlare solo di te, tu sei un uomo che può parlare per tutti”.

E così ha fatto, con la scrittura, con il documentario portato al festival, e attraverso piccoli e grandi incontri con il pubblico, che sono tappe di un unico discorso. Un discorso scevro di nostalgia, perché la sua è un’urgenza, una rivendicazione, una battaglia, è una lotta per la dignità, una richiesta di “giustizia”.
Perché è grazie a quei “quattro” scanzonati, autodidatti, folli, coraggiosi, creativi, ubriaconi di vita e vino che è partito tutto, e dove tutto, o almeno tanto del teatro di oggi, converge.
La memoria di Pippo è quindi una memoria da tutelare, di cui far tesoro, e sostenere.
Oggi, più che mai, a Pippo di Marca non interessa parlare di sé, ma raccontare la verità, scrivere una storia alternativa rispetto a quella accademica; raccontandola dal di dentro, attraverso i suoi artisti.

“Io che scrivo, e prima di scrivere penso, e prima di pensare soffro, e prima di soffrire amo, me stesso e tutti quelli che riconosco fratelli – mi racconta quando lo incontro ai Giardini Due Torri di Rovigo – Avevo bisogno di creare qualcosa che desse senso a tutta quella storia, non soltanto alla singola storia, e questo poteva essere fatto attraverso il collegamento alle piante che erano nate in seguito alle nostre semine, oppure se vogliamo alla nostra malattia, che ha infettato migliaia, o forse di più, persone e artisti in Italia. Un fenomeno, un’avanguardia prolungata che non si è vista da nessuna altra parte”.

Da dove arriva l’urgenza di raccontare? Per quale motivo, per lei, è così importante farlo?
C’è una parola che viene usata tantissimo negli ultimi tempi, ed è la parola narrazione. Una parola abusata, e a volte deturpata: penso a quando viene usata da alcuni partiti… La narrazione è il racconto del mondo, la narrazione è la storia […] Per quanto riguarda il discorso artistico, spesso piuttosto di fare la narrazione si fa l’analisi, si fa della filosofia teoretica e, diciamo, estetica, che è necessaria, ma quando diventa la base della conoscenza mette a rischio la conoscenza stessa delle cose. Il Teatro d’Avanguardia – anche se c’è chi dice che l’avanguardia non c’è più e non è mai esistita – è un teatro che ha completamente ribaltato il linguaggio, la sintassi e la grammatica del teatro italiano tradizionale a partire dalla fine degli anni ’50, e continua ancora a farlo. Questo fenomeno, se è circoscritto, periodizzato da valutazioni di tipo meramente accademico, rischia di far perdere fatalmente di vista l’insieme. La storia è fatta di congiunzioni, di sbavature, di notti insonni, ubriacature insieme, di prove in cui non succedeva niente per giorni, e noi lì a insistere finché trovavi il bandolo della matassa. […] Quello che conta è la vita degli artisti, il loro modo di produrre, il contesto storico in cui le cose sono avvenute. E questo si può rendere meglio attraverso una narrazione che non sia storiografia. Il racconto di tutto questo dovrebbe essere fatto dagli artisti, perché la narrazione è la storia di ogni singolo artista che si tramuta in opera.

Che è quello che ha cercato di fare attraverso i suoi due libri. Il primo, “Tra memoria e presente. Breve storia del teatro di ricerca in Italia nel racconto dei protagonisti” è stato pubblicato nel 1999, e l’ultimo del 2013, edito da Titivillus, “Sotto la tenda dell’Avanguardia”. Un libro densissimo che mette al centro del discorso l’artista e la sua vita, il tutto raccontato dall’interno.
La mia scrittura non ha lo scopo di pavoneggiare lo scrivente, ma di raccontare veramente come si sono svolti i fatti, e i fatti si sono svolti in maniera diversa rispetto a come sono stati raccontati.
Credo che nel mio piccolo – anche se non in modo esaustivo – ho cercato, e cerco tutt’ora, di restituire dignità e importanza a qualcosa che stava cadendo nell’oblio. Cerco di riportare nel logos della cultura italiana non solo il mio pensiero, ma il pensiero di tutti i giganti come De Berardinis, Carmelo Bene, Carlo Quartucci, che avevano una consapevolezza altissima della loro capacità rivoluzionaria, e io ho imparato che era la loro vita che dava significato alla loro opera. Carmelo diceva: “Ogni respiro, ogni attimo della mia vita è opera, non la posso definire”. Non c’è nessuno di quelli che nomino che può essere definito in una sola maniera. Lo diceva pure Duchamp, che è un altro dei miei riferimenti, e che era un anti-romantico, e un anti-artista […] Ho messo in pratica l’idea di Carmelo: l’artista deve avere il coraggio di parlare! Che poi era anche l’idea di Leo. Partendo dalla loro narrazione ho raccontato la storia del teatro italiano […]. “Sotto la tenda dell’avanguardia” è nato dopo che è morto Leo, perché avevo una sorta di obbligo morale ed estetico: dovevo restituire un significato alla rivoluzione che c’è stata e che riguarda tantissime generazioni.

Che ricordo ha di quell’inizio, l’inizio della rivoluzione?
L’inizio di tutto è stato un periodo favoloso, di libertà assoluta, nel mondo e in Italia. Dal ’65 all’80, sono stati 15 anni che hanno marcato un’intera generazione. Io sono rimasto uno dei pochi che ha vissuto sulla sua pelle tutte le stagioni del Teatro d’Avanguardia. Ho accompagnato al Campo Santo troppi fratelli […]. È cominciato tutto a Roma, ma la rivoluzione non l’hanno fatta i romani, l’abbiamo fatta noi che eravamo siciliani, campani, pugliesi, la più settentrionale era di Roma sud. Arrivavamo tutti dalla periferia dell’impero: Leo, Cosimo Cinieri, Quartucci, io, Simone Carella, Perla Peragallo […] eravamo degli autodidatti e avevamo tutti una carica esplosiva, inimmaginabile per un borghese. Questi ignoranti, che se ne fregavano della cultura alta, hanno preso il teatro italiano e l’hanno girato di 360 gradi. […] Abbiamo cominciato negli anni ’60, penato negli anni ’70, poi siamo usciti dai teatri, abbiamo invaso le strade. Io ho creato per primo il teatro d’appartamento in Italia, ho fatto degli spettacoli pazzeschi a casa mia, la mia casa era il teatro del mondo. All’esterno è stato percepito come una sconfitta, ma non lo è stato, è stato l’inizio della battaglia, perché la battaglia vera è iniziata negli anni ’80, quando ci siamo accorti che in questo giardino infernale erano state buttate le radici per tutto quello che sarebbe successo dopo.

E cosa è successo dopo?
Abbiamo cominciato a interrogarci sul significato di questa storia, su cosa era stata. Abbiamo capito che avevamo seminato tantissimo, non eravamo dei costruttori solo del nostro orticello. In Italia c’è una marea incredibile di realtà che nascono da quella storia. È tutta una catena. Il fiume che abbiamo creato non si è mai fermato, è continuato negli anni, e c’è stata una crescita. Se all’inizio i gruppi erano una manciata, poi sono diventati quaranta, cinquanta, e poi centinaia negli anni ’90. Bisogna prendere atto di questo, si tratta di un esercito, e significa che dietro c’è un magistero. Un magistero che ha fatto sì che da ogni gruppo nascessero altri gruppi, e da questi altri gruppi ancora e così via. Dal nucleo di Leo sono nate, e tutt’ora esistono, compagnie di attori bravissimi. La cultura teatrale napoletana è debitrice di Leo de Berardinis, che a un certo punto ha recuperato in termini altissimi la cultura popolare; a Marigliano ha recuperato l’idea della sceneggiata, e l’ha portata dentro il teatro, unendo la cultura alta con la cultura più autentica.
Sono orgoglioso di poter dire che Latella è nato dentro al Meta-Teatro con me, nel ’90. Non ce ne sono altri come lui, è l’unico capace di fare avanguardia, sperimentazione, ricerca e teatro di parola. Arrivava da Firenze, e ha trovato un altro mondo. Abbiamo fatto insieme “I negri” di Genet, uno spettacolo pazzesco. Uno spettacolo che dopo anni ha rifatto a modo suo, e in cui ho ritrovato la stessa energia creativa di allora, quando ha dato l’anima per noi. Anche Gianni Forte, che ora è direttore della Biennale Teatro di Venezia, è nato dal Meta-Teatro. Era un ragazzo di vent’anni e ha respirato un’aria incredibile. Quando ci vediamo ancora mi ringrazia per quell’anno e mezzo che abbiamo passato insieme.

Chi altro è figlio, o nipote, di quel magistero?
Ce ne sono tantissimi, perché l’energia di allora non si è esaurita. Negli anni ’70 pensavamo che più in là non si poteva andare, e invece negli anni ’80 è ricominciato tutto. Romeo Castellucci è arrivato a Roma in quegli anni, ha cominciato a girare con Memè Perlini e Bartolucci, si è ubriacato di teatro, è stato come se quattro ragazzi avessero incominciato a prendere a cazzotti la cultura italiana, ed è partita una nuova avanguardia. Poi c’era Valdoca e Cauteruccio, che facevano delle cose bestiali. Poi è arrivato Pippo Delbono, che è misconsiderato dalla grande storiografia perché non è formalizzabile, ma la sua è energia pura; oppure Armando Punzo, che è un gigante, che si inventa spettacoli incredibili in carcere creando qualcosa che i fratelli Taviani a confronto sono dei dilettanti; lui lo dice, e ha ragione lui. Potrei fare tanti altri nomi, ce ne sono a centinaia, perché non c’è mai fine alla potenza della creatività degli artisti. Questo è stato un fenomeno tutto italiano, quello che è avvenuto qui non è avvenuto da nessun’altra parte. È una narrazione continua.

Lei ha davvero un’energia sorprendente. Pensavo che avremmo parlato solo del teatro del passato, e invece nella sua narrazione c’è sia il teatro di oggi, che il teatro di domani. Il suo motto è ancora “senza fermarsi mai, senza formarsi mai”?
Certo, perché si impara sempre e si impara se si vuole imparare. Chi si ferma e chi si forma è perduto! Questa è la storia, e insisteremo a raccontarla: non sono dettagli, ma momenti di grande verità.

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