Tebe al tempo della febbre gialla. L’Odin Teatret in un dolce saluto alle scene

Giulia Varley in scena (ph: Francesco Galli)
Giulia Varley in scena (ph: Francesco Galli)

Ottantesimo spettacolo per Eugenio Barba e l’Odin, con un ritorno al mito che vuol essere augurio di speranza verso il futuro 

“Tebe al tempo della febbre gialla” è l’ottantesimo e ultimo spettacolo dell’Odin Teatret, compagnia fondata da Eugenio Barba nel 1964. Il lavoro e la riflessione teatrale sulla quale si fonda l’Odin si erigono, oggi, a pilastri della storia del teatro del XX secolo.
E lo spettacolo sembra chiudere un cerchio, quello del percorso del regista. La storia di Edipo ha infatti accompagnato il cammino artistico di Barba: “Edipo tiranno” di Sofocle è stato il suo primo progetto, presentato nel 1961 alla scuola di Varsavia, e “Tebe” è il progetto che saluta Holstebro, sede storica della compagnia nonché luogo di riflessione, sperimentazione e condivisione. Nella periferia di quella cittadina nel nord della Danimarca la parola Teatro è stata nutrita, per circa sessant’anni, da pratiche artistiche, creazioni e vita collettiva. E questo spettacolo si presenta come l’addio della compagnia alle scene.

Caro amico di Ariane Mnouchkine, Barba, come di consueto, è stato ospitato (dopo il passaggio al Teatro Vascello di Roma) al Théâtre du Soleil di Parigi anche per questa nuova creazione, andata in scena a novembre.
Il pubblico viene accolto dallo stesso regista e disposto su due lati. In questo modo le due linee di spettatori delimitano lo spazio scenico, creando un corridoio all’interno del quale si sviluppano le azioni dei personaggi, interpretati dai cinque attori storici della compagnia: Kai Bredholt, Roberta Carreri, Donald Kitt, Iben Nagel Rasmussen e Julia Varley.
Poetici sono i loro corpi di attori maturi, e pieni di delicatezza ed esperienza i loro gesti.

Siamo a Tebe, il giorno dopo la battaglia dei due figli di Edipo per il dominio della città. Antigone è stata punita. I personaggi entrano in scena con il viso coperto da bianchi tessuti e con lenzuola bianche macchiate di rosso: le famiglie seppelliscono i loro morti e un rito di purificazione prende luogo.
Tiresia, Creonte, la Sfinge, Aglaia e lo spettro di Edipo fanno la loro apparizione, ma non li identifichiamo con certezza. I cinque attori, vestiti con abiti poveri e inconsueti, recitano in greco antico. Il testo è intermezzato da frasi in francese per orientare il minimo necessario lo spettatore sulle vicende del mito.
É chiaro fin da subito che gli spettatori sono invitati a fare un’esperienza di abbandono della comprensione attraverso il senso delle parole per affidarsi a canti, vocalizzi e gesti. Quello che ci guida, difatti, è la musicalità della pièce. La stessa enunciazione del testo segue regole ritmiche che fanno del greco antico quasi un canto. Forti e intensi sono i momenti a cappella e quelli voce e fisarmonica; il paesaggio sonoro è arricchito da suoni prodotti dagli attori stessi.

Tutti gli elementi partecipano a creare una dimensione ancestrale; si ha come l’impressione di assistere e condividere un rito, come quelli delle feste di villaggio. La povertà dei costumi e dei materiali scenici, le danze e le maschere dei personaggi di Creonte e della Sfinge contribuiscono a tessere il ponte con i balli rituali propri dell’atmosfera rurale. Gli attori non sono solo la rappresentazione dei personaggi della storia di Edipo, ma suggeriscono e toccano gli archetipi che abitano dietro di essi. Le azioni e i movimenti dei corpi, così come quelli nello spazio, nutrono sia la dimensione archetipale che ancestrale dello spettacolo. D’altronde, rito e mito sono le radici profonde del teatro.

“Tebe al tempo della febbre gialla” è una grande ballata tragica ma allo stesso tempo piena di speranza. Con il procedere del racconto, il palco si popola di oggetti in una dinamica di costruzione e ricostruzione dello spazio. Il colore giallo si impone. Tele arrotolate color oro vengono portate sul palco come uccelli in volo che decidono di fare una piccola sosta. Una volta srotolate, vengono disposte a terra e possiamo distinguere tele famose del XX secolo come quelle di Klimt, Van Gogh, Klee, Munch, Gauguin… E’ un volo d’uccelli di buon augurio.

In un’intervista su “La Repubblica”, Eugenio Barba spiegava il perché della scelta del giallo. Negli anni Cinquanta dell’Ottocento, una grande innovazione tecnologica permise la creazione di nuovi colori conservabili in tubetti. In questo modo gli artisti non erano più obbligati a mischiare vari materiali per ottenere le sfumature desiderate. Uno di questi colori era il giallo e così, come una vera e propria febbre, il giallo si propagò all’interno delle pitture dell’epoca. Ed è a questo fenomeno che fa riferimento lo spettacolo e il suo titolo, a questa fibrillazione creativa. Il legame alla «gialla febbre feconda» ci permette di cogliere la vena di speranza e lo sguardo al futuro che attraversa l’opera.
La sinossi sul programma di sala si chiude difatti con «Per i giovani è primavera, tempo di innamoramenti, il futuro è frenesia di sole e oro: una febbre gialla».

Una frase è ricorrente nel testo: «Sette volte sette Tebe sarà distrutta e sette volte sette verrà ricostruita». Un’eco che non può non farci riflettere sui nostri tempi. L’augurio è forse quello di una febbre gialla che, nonostante il crollo e la distruzione che regna attorno, ci renda ancora capaci di innamorarci e riempire i nostri occhi di vita. Dietro la storia di Tebe non c’è forse la storia dell’Occidente?

Il creare e ricreare è la dinamica che irrora tutto lo spettacolo, di per sé costruito su una stratificazione di livelli di senso e codici. All’inizio lo spazio è vuoto, si popola per accumulazione e ricomposizione per poi venir ripulito, alla fine, dagli attori stessi.
Tutti i materiali e le tele in oro vengono disposte su una sorta di altare, in un movimento che attraversa il corridoio scenico creato dalle due file di spettatori. E quando su quest’altare verrà poggiata una testa di toro, il rito sarà finito, e in un’ultima danza gli attori lasceranno il palco.

Il sapore che rimane è quello di un passaggio: il passaggio di una grande ballata che per settanta minuti ha riempito la sala del Théâtre du Soleil. Tale idea è del resto parte integrante del pensiero dell’Odin, che infatti non usa tornare sul palco per gli applausi: gli attori sono dei canali, veicolo del teatro.
E non è forse il teatro stesso a essere un passaggio effimero che attraversa la sensibilità dello spettatore e continua a esistere solo all’interno della sua esperienza?

Tebe al tempo della febbre gialla
Testo e regia Eugenio Barba
Dramaturg Thomas Bredsdorff
Assistenti alla regia Elena Floris, Dina Abu Hamdan
con Kai Bredholt, Roberta Carreri, Donald Kitt, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley
Spazio scenico Odin Teatret
Disegno luci Fausto Pro
Consulente luci Jesper Kongshaug
Costumi e oggetti Lena Bjerregard, Antonella Diana e Odin Teatret
Consigliere arte visuale Francesca Tesoniero

Durata : 1h 10’

Visto a Parigi, Théatre du Soleil, il 19 novembre 2022

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