Benvenuti nella Terra di Nod: quale ruolo volete giocare in questo esilio?

Het Land Nod di Fc Bergman - Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù
Het Land Nod di Fc Bergman - Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù

Al collettivo belga FC Bergman il Leone d’Argento della Biennale Teatro 2023

Parquet classico a spina di pesce a pavimento di una sala ampia forse 15 metri per 20. Pareti rivestite di velluto un po’ consunto, alte forse anch’esse una quindicina di metri, percorse in basso da una seduta continua in legno e in alto da un cornicione simile a gesso stuccato.
Di fronte alla platea, una porta maestosa e con un profilo massiccio. Le pareti proseguono ai lati e si chiudono alle spalle degli spettatori, includendoli.
Sorprende l’imponenza dell’ambiente, tale che, per realizzarlo, la Biennale di Venezia ha scelto la sede di un hangar industriale di Marghera. Sorprende soprattutto vederlo saltare in aria durante la serata e sapere che il giorno dopo ci sarà una seconda replica.

A dichiarare che ci troviamo dentro un museo, c’è, innanzitutto, sul lato sinistro, la riproduzione di un quadro di Rubens, il “Cristo in croce tra i due ladroni”, le cui misure originali superano i quattro metri per tre; inoltre, un inserviente con una lavasciuga è già in sala mentre il pubblico si accomoda, ed entrano ed escono anche dei guardasala.
Siamo catapultati in uno spaccato del Museo Reale di Belle Arti di Anversa dal collettivo vincitore quest’anno del Leone d’Argento della Biennale Teatro di Venezia: gli FC Bergman, di provenienza belga.

“Het land Nod” (La terra di Nod) è un’opera del 2015, che sarebbe dovuta andare in scena per la prima volta in Italia al Festival Vie di Modena negli stessi giorni in cui è scattato il lockdown. Uno spettacolo, quindi, non recente, ma il cui linguaggio risulta ancora sorprendente e la cui carica evocativa racchiude in sé un’attualità permanente, tristemente intramontabile.

Tra l’inizio e la conclusione si dipana o si aggroviglia una successione di scene mute, del tutto prive di dialoghi, il cui sviluppo non è strettamente consequenziale, né funzionale ad una logica narrativa. Un quadro vivente sull’altro si offre al nostro sguardo, interrogandoci non solo come meri osservatori. Già, perché “La Terra di Nod” sembra sia quella in cui ci troviamo, tutti, nessuno escluso.

Nod è la regione dove Caino fu esiliato, dopo aver ucciso il fratello Abele, venendo perciò costretto ad abbandonare l’Eden. In ebraico la stessa parola nod significa vagare, girovagare: la terra che porta questo nome è la patria di chi è condannato ad essere fuggiasco, in perpetuo esilio e in una quête alla quale non basta una sola esistenza per ritrovare ciò che ha perduto o mai posseduto davvero.

Per quanto surreali e inverosimili, con tratti persino esilaranti, le scene che si presentano sembrano chiederci in quale di esse meglio ci riflettiamo.
Siamo l’uomo fradicio di una pioggia alluvionale e forse radioattiva che ripara nel mausoleo della bellezza e, fronte Rubens, si mette totalmente a nudo, senza nessuna vergogna, consegnando i suoi panni inzuppati ad un guardasala basito? O siamo i due turisti cinesi che attraversano la sala cercando la posa migliore per un rosario di selfie senza osservare davvero l’opera, né accorgersi della fragilità provocatoria e temeraria di quel corpo vestito di sola pelle? Siamo la ragazza che asseconda la propria emotività, alla ricerca di braccia che la sostengano quando perde i sensi o l’equilibrio? O siamo l’uomo che si può permettere di entrare al centro della scena in abito elegante, alzare una mano e spargere i propri soldi a terra, non abbassare mai lo sguardo ed andarsene? Oppure, invece che singoli individui, siamo in prima istanza esseri definiti da legami, magari amici che persino all’interno di un’istituzione consacrata non perderebbero occasione di giocare a guardia e ladro, azzuffandosi per terra?

Un inno alla propria amicizia è stata definita dal collettivo stesso la scena che riproduce la corsa dentro al Louvre girata da Jean-Luc Godard in “Bande à part” (a sua volta derivata da “Jules et Jim” di Trouffaut e rielaborata da Bertolucci in “The dreamers”): due attori ed un’attrice corrono circolarmente sovvertendo la rigidità dell’ambiente, a volte saltando sulle sedute, a volte fuoriuscendo dalla sala come se stessero sfondando la parete attraverso qualche pannello mobile e rientrando qualche istante dopo.

A che serve custodire l’arte e la bellezza se al suo interno la vita oggi viva non può pulsare? Sembra essere questo il grande interrogativo sollecitato dalla prima parte dello spettacolo e che potrebbe essere ulteriormente articolato, indagando ad esempio la contraddizione tra il grande rispetto con cui ossequiamo il passato e la sterile indifferenza con cui tarpiamo le ali al presente.

Ma la vitalità incontenibile lascia spazio a sentimenti di segno opposto nella seconda parte. Da fuoricampo proviene il frastuono di armi e schianti, e i crolli pian piano coinvolgono anche la sala, che si riempie del fracasso provocato, ad esempio, da qualche pezzo di cornicione che precipita a terra.
Un elegante signore entra insanguinato, qualche altro custode dà segni di preoccupazione. Una squadra dispone delle coperte: che stiano arrivando dei profughi? A che serve ora la bellezza? Da che cosa ci riparerà?
Ecco che la sollecitazione cambia di segno e con essa le nostre proiezioni. Siamo coloro che si costruiscono una tenda cercando riparo anche nell’arte come dimensione salvifica per la propria sensibilità, in attesa che passi la notte dell’umanità? Oppure siamo coloro che lasciano che le coperte messe a disposizione per chi non ha più nulla vengano risucchiate nel buco nero di un angolo della sala da un meccanismo invisibile? Siamo coloro che accatastano morti e separazioni e vanno avanti? Oppure coloro che restano bloccati dall’assenza?

I custodi, personaggi apparentemente secondari ma tra i più ironici e compassionevoli, spesso restano spiazzati, a volte non sanno come reagire, in altre intervengono con minimi gesti con cui rimettono a posto le cose oppure evitano il peggio. Sono travolti, eppure resistono in quella varietà incongruente di scene e finiscono per essere determinanti anche nell’affermazione dell’unico sottile filamento narrativo.
Di esso tiene le redini il direttore del museo, una figura modesta e buffa, che cerca di staccare il Rubens, prima con alcuni aiutanti, poi da solo, trovandosi in situazioni di comicità keatoniana. Lo stesso si rende protagonista di azioni che sembrano attentare all’integrità del museo: prima con un’ascia pesantissima, poi con della dinamite, tenta di smantellare la porta (o l’intera parete?) d’ingresso. E ci riesce!
Mentre ci si interroga se il suo intento sia demolire un’istituzione divenuta troppo polverosa, quindi se dentro il suo camice blu si nasconda un’anima sovversiva, piano piano si chiarisce che l’unico suo obiettivo è aprire una breccia attraverso cui portare fuori dalla sala l’enorme “Cristo in croce tra i due ladroni”, rappresentazione del sacrificio del divino reso inutile dalla Storia scritta dagli uomini.

Fuori cadono bombe su una città che non è Kiev, né Bagdad, ma è questo nostro abitato continuamente minacciato da una malvagia arroganza, questa terra in cui i sogni seminati ai tempi dell’Eden si confrontano con limiti e condizionamenti che seguono logiche talmente umane da essere disumane.
Uno sforzo sfiancante, quello del direttore, considerata anche la pesantezza della cornice stessa, ma che riesce grazie al supporto dei custodi, che alla fine per lui, stremato, allestiscono un tavolino per cenare a ridosso della parete su cui prima era installato il Rubens. Ricompensa o risposta, su di essa compare una luminosa effigie di Cristo.

Quindi, infine, quanti di noi sono capaci di mettere in salvo la bellezza prima di sé stessi, le promesse del passato e l’eredità che lasceremo alle generazioni successive, i più alti valori prima dei propri più angusti interessi?
Oppure quanti di noi, pur nella loro impotenza ed inadeguatezza affini a quelle dei guardasala, continuano a fare quello che possono restando semplicemente a servizio e svolgendo al meglio il ruolo che hanno assunto?

Het land Nod
di FC Bergman (Stef Aerts, Joé Agemans, Bart Hollanders, Matteo Simoni, Thomas Verstraeten, Marie Vinck)
con Stef Aerts, Joé Agemans, Geert Goossens, Bart Hollanders, Thomas Verstraeten, Marie Vinck, Matteo Simoni
prodotto da Toneelhuis con il supporto di PHLIPPO Productions, AGFA Graphics, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten Antwerpen (KMSKA)

durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 2’ 45’’

Visto a Venezia, Biennale Teatro, il 17 giugno 2023

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